Intervista esclusiva all’astronauta Jack Lousma
Eccoci giunti all’ultimo appuntamento con questo breve ciclo di interviste dedicate agli astronauti che hanno volato nel programma STS (Space Transportation System) della NASA. La loro pubblicazione è stata possibile grazie all’ospitalità ed al supporto dell’associazione ISAA alla quale va tutta la mia gratitudine. Un ringraziamento speciale va inoltre all’amico Simon Bolt che ha avuto un ruolo fondamentale nella realizzazione di questo progetto.
Jack Robert Lousma è nato il 29 febbraio 1936 a Grand Rapids, nel Michigan. Nel 1954 si è diplomato alla Pioneer High School di Ann Arbor. Cinque anni più tardi ha conseguito la laurea in ingegneria aeronautica presso l’Università del Michigan nella stessa Ann Arbor. Nello stesso anno è entrato nel corpo dei Marines dove l’anno successivo ha conseguito il brevetto di pilota, volando in seguito sugli aerei A4D Skyhawk presso la base aerea di Cherry Point nel North Carolina e quella di Iwakuni, in Giappone. Nel 1965 ha conseguito un Master in ingegneria aeronautica alla U.S. Naval Postgraduate School di Monterey, in California.
Nell’aprile del 1966 Lousma è stato selezionato dalla NASA assieme ad altri 18 astronauti fra i quali tre (Mitchell, Irwin e Duke) hanno camminato sulla Luna nelle missioni Apollo 14, 15 e 16. Lui stesso avrebbe dovuto atterrare sulla Luna in qualità di pilota del modulo lunare della missione Apollo 20 che però venne cancellata nel gennaio 1970. La sua prima missione arrivò nel 1973 quando fra luglio e settembre trascorse ben 59 giorni nello spazio grazie al volo denominato Skylab 3, del quale facevano parte anche i connazionali Alan Bean, il quarto uomo a mettere piede sulla Luna con la missione Apollo 12, e Owen Garriott che come Lousma era alla sua prima esperienza spaziale. Prima di allora nessuna missione era durata così tanto ed i tre astronauti stabilirono quindi un nuovo record in quanto a giorni consecutivi passati nello spazio. Il secondo e ultimo volo spaziale di Lousma arrivò nel marzo 1982 con il comando della missione STS-3 della navetta spaziale Columbia. Nel 1983 ha lasciato la NASA ed il corpo dei Marines, con il grado di Colonnello, per affrontare una carriera politica che lo ha visto concorrere l’anno successivo, senza successo, per un posto al Senato.
STS-3
Sei uno dei pochi astronauti che hanno volato sia con il razzo Saturn, nella versione IB, che con lo Space Shuttle. Quali sono le principali differenze che hai notato in questi due sistemi di lancio?
Innanzitutto devo dire che sono stati entrambi dei lanci impressionanti, sebbene con differenti sensazioni. Il Saturn è un razzo multistadio, il ché significa che prima di poter accendere il secondo stadio il primo deve essersi separato. Di conseguenza c’è un momento in cui i tuoi motori principali si spengono e attendi la separazione del primo stadio, dopodiché speri che si accenda il secondo. Il primo stadio ti accelera fino a svariate migliaia di km all’ora e l’accelerazione sale a valori piuttosto alti. Quando lo stadio si spegne tutto questo si interrompe bruscamente e sei proiettato in avanti contro le cinture. Poi senti l’esplosione che separa il primo stadio e hai come la sensazione che passi molto più tempo di quanto in realtà ne passa prima che si accenda il secondo. Questo è ciò che provi in un razzo multistadio.
Nello Shuttle invece i motori principali rimangono accesi per tutta la durata della salita. L’unica cosa che accade è la separazione dei booster a propellente solido. Lo Shuttle perciò non è un razzo multistadio vero e proprio come il Saturn. Questa è la prima differenza.
Per raggiungere l’orbita con lo Space Shuttle ci vogliono circa otto minuti e mezzo, mentre con il Saturn ce ne sono voluti circa dieci e mezzo. Malgrado ciò l’accelerazione è maggiore nel Saturn, circa 4,5 g. Lo Shuttle invece raggiunge un massimo di 3 g. Quando si arriva a 3 g la spinta viene ridotta per non superare questo valore. Si potrebbe spingere di più, ma questo provocherebbe uno stress eccessivo sugli attacchi fra il serbatoio esterno e lo Shuttle. Anche in questo quindi sono due sistemi differenti.
Un’altra differenza riguarda le vibrazioni. In entrambi i veicoli quando si accendono i motori e decolli ci sono delle vibrazioni molto forti, ma quando il Saturn ha oltrepassato la torre di lancio la salita si fa molto più quieta. Naturalmente avverti tutta la potenza e la spinta dei motori, ma in maniera confortevole.
Per quanto riguarda il decollo dello Shuttle invece, dopo le intense vibrazioni iniziali e superata la torre di lancio rimane una sensazione continua di tremolio come se viaggiassi ad alta velocità con un’automobile sulle rotaie di una ferrovia. Questo è causato dai booster a propellente solido. Quando questi vengono sganciati, due minuti dopo il decollo, la salita diventa molto più quieta.
Un’altra grande differenza fra i due veicoli è che il Saturn aveva una torre di fuga che potevi usare in caso di necessità. Poteva perfino essere usata sulla rampa di lancio se ci fossero stati dei problemi all’accensione dei motori. In cabina avevamo una manovella che potevamo ruotare e che avrebbe separato il modulo di comando dal resto del razzo, con la torre di fuga che ci avrebbe portato verso l’alto e verso il mare, ad oltre un km di distanza e di quota.
Lo Shuttle non ha nulla di tutto ciò. Le modalità di fuga sono meno favorevoli rispetto al Saturn. In termini di sicurezza, mi sono sentito più a mio agio sul Saturn che sullo Shuttle. Ad eccezione dei due incidenti, lo Shuttle si è tuttavia dimostrato affidabile e c’è anche la possibilità di effettuare alcune procedure di emergenza durante il lancio, sebbene diverse rispetto al Saturn. Ritengo comunque che in questo il Saturn sia stato superiore.
In entrambi i lanci tuttavia non ho provato paura. Naturalmente sentivo che c’era un alto elemento di rischio, ma c’è un alto elemento di rischio in molte altre cose che facciamo.
Durante la missione tu e Fullerton avete avuto alcuni problemi fisici, inoltre ci fu anche un problema con la toilette. Me ne puoi parlare?
Quando vai nello spazio il tuo sistema sensoriale si deve ricalibrare. Ma è normale. Il sangue ed i fluidi delle gambe migrano verso l’area addominale e verso la testa. L’unico momento in cui non siamo stati molto bene fu appena arrivati in orbita. Non eravamo realmente ammalati. Ci siamo semplicemente sentiti non molto bene per qualche ora, ma superato questo momento siamo stati benissimo come mai nella nostra intera vita sulla Terra!
Sì, ci furono dei problemi con la toilette. Rispetto al Saturn fu un grande passo avanti. Era simile alla toilette che avevamo sullo Skylab, ma purtroppo una delle cose che avrebbe dovuto funzionare a dovere si guastò. All’interno del sistema di raccolta c’è una specie di ventola che ha la funzione di convogliare le feci che vi entrano. Questa ventola si ruppe e così le feci anziché venire distribuite all’interno del contenitore cominciarono ad accumularsi. E questo non fu una buona cosa. Con l’improvvisazione e la creatività trovammo una soluzione, ma questo richiese alcune riparazioni prima di poter utilizzare nuovamente la toilette nella maniera corretta. Naturalmente non mise a repentaglio la nostra vita, ma fu decisamente un inconveniente.
Mentre eri in orbita sapevi che non avresti più volato con lo Shuttle oppure speravi di effettuare altre missioni?
Questo fu il mio secondo volo. Il primo, naturalmente, fu quello sullo Skylab dove passai due mesi. Quello sullo Shuttle fu un volo di collaudo, una missione molto impegnativa ma molto eccitante perché è proprio questo che piace ai piloti collaudatori, fare qualcosa che non è mai stato fatto prima. Siamo stati i primi a fare alcune cose per testare lo Shuttle, le procedure, gli equipaggiamenti e via dicendo. Era un nuovo tipo di navicella spaziale e più difficile da riportare a Terra rispetto ad una capsula che non ha la complicazione delle ali e tutte le altre strutture. Il rientro con lo Space Shuttle è molto più delicato e richiede più precisione.
Ma rispondendo alla tua domanda se sapevo o meno se avrei volato ancora devo dire che non lo sapevo in quanto era una questione se volessi o meno rimanere nel giro. Finita la missione ho dovuto prendere questa decisione e sono rimasto alla NASA per un altro anno e mezzo durante il quale ho lavorato ad un primo progetto per la futura ISS e altre cose del genere. Mi stavo anche preparando per un altro volo Shuttle entro un paio d’anni. Sono stato nel simulatore per una missione che prevedeva il rilascio di un satellite, ma cominciavo a percepire che quando andavo nel simulatore ripetevo un sacco di volte le stesse cose, cose che avevo già fatto in precedenza. Questo non era così eccitante come un volo di collaudo. Era più che altro una routine.
Se fossi rimasto alla NASA avrei certamente effettuato un altro volo, ma questo non sarebbe probabilmente stato così eccitante come quello precedente e quindi non valeva il rischio che comportava a me e alla mia famiglia. Inoltre non volevo addestrarmi per i successivi due anni facendo le stesse cose che avevo già fatto per due anni e mezzo in occasione del mio primo volo Shuttle. Così, considerato tutto questo, ho sentito che era ora di andarmene e fare qualcos’altro. Mi dimisi dalla NASA pur avendo la prospettiva di un altro volo, ma decisi che c’erano cose ancora più grandi e migliori che avrei dovuto fare. Ad un certo punto devi smettere di divertirti e cominciare a lavorare per vivere e così rassegnai le dimissioni dalla NASA e dai Marines nel novembre 1983, cioè un anno e mezzo dopo il mio volo con lo Shuttle. L’ho fatto perché ho pensato che potevo passare il mio tempo facendo qualcosa di nuovo e diverso e sentivo che dovevo dare il mio contributo per realizzare qualcosa da un’altra parte.
L’atterraggio, il primo e unico a White Sands, andò bene o ci furono dei problemi?
L’atterraggio al White Sands Missile Range avvenne sul letto di un lago prosciugato in quanto i primi voli Shuttle era previsto atterrassero su questo tipo di superficie. Il letto di un lago prosciugato è un terreno molto duro e compatto e anche molto asciutto se il clima è secco. Inoltre puoi avere a disposizione una pista lunga anche dieci chilometri. Nel caso della Edwards Air Force Base avevamo addirittura svariate piste di atterraggio, che si incrociavano fra loro, in quanto non eravamo completamente sicuri che quando lo Shuttle si fosse trovato vicino al suolo sarebbe atterrato subito, o piuttosto avrebbe “galleggiato” per un bel po’. Inoltre non sapevamo con esattezza se ci avrebbe portati nel punto preciso per fare l’atterraggio dal momento che essendo lo Shuttle un aliante doveva essere nel posto giusto al momento giusto. Ed in questo è un velivolo che non perdona molto. Per questo a quei tempi atterravamo sul letto di laghi prosciugati.
I primi due voli atterrarono a Edwards, e lo stesso dovevamo fare noi se non che, circa una settimana prima del lancio, ci furono alcune piogge in California e quindi la pista non sarebbe stata sufficientemente asciutta per il nostro atterraggio. Così il successivo letto di lago prosciugato disponibile era il White Sands Missile Range. Di conseguenza abbiamo dovuto cambiare le nostre sessioni di allenamento per prevedere un atterraggio a White Sands e in un altro paio di basi di riserva. Se non saremmo stati in grado di atterrare a White Sands avremmo dovuto atterrare a Cape Canaveral, ed anche in questo saremmo stati i primi, dove la pista è lunga quattro chilometro e mezzo. È un po’ più lunga delle normali piste di atterraggio commerciali ma tuttavia con lo Shuttle che atterra ad una velocità molto elevata, se le cose non vanno alla perfezione hai bisogno di una pista un po’ più lunga. Comunque già prima del lancio l’atterraggio venne pianificato a White Sands.
Il giorno previsto del nostro rientro, a White Sands c’era del vento molto forte che sollevava in aria tutta la sabbia. I piloti che stavano provando per noi gli atterraggi non erano in grado di vedere la pista e quindi ci fu comunicato di rimanere nello spazio per un giorno ancora. Quando ce lo comunicarono eravamo ormai pronti al rientro e invece passammo un giorno extra in orbita. Naturalmente da parte nostra se avessimo potuto saremmo rimasti nello spazio anche per un’altra settimana o due ma ci dissero “Domani atterrerete, e lo farete o al White Sands Missile Range o a Cape Canaveral ed in questo sarete i primi”. Fortunatamente il secondo giorno il tempo fu buono e quindi atterrammo al White Sands Missile Range senza problemi. Lo avevamo pianificato e ci eravamo addestrati a farlo. Anche i nostri allenamenti con l’aereo che simula lo Shuttle li avevamo fatti principalmente al White Sands Missile Range, dove ho effettuato qualcosa come 700 approcci di prova. Avevamo quindi una grande familiarità con il terreno e l’area circostante. Il meteo era buono e quindi non ci furono problemi.
Qual è il ricordo migliore della tua ultima missione?
Il miglior ricordo, in realtà di entrambe le mie missioni, è stato quando dopo essere atterrato, o ammarato, ho realizzato che eravamo ancora vivi e che avevamo compiuto la nostra missione. Sono stati entrambi dei momenti di grande soddisfazione e appagamento in quanto avevamo lavorato per due anni e mezzo al solo addestramento per questi voli, e il fatto che avessero avuto successo e che fossimo ancora vivi è stato molto gratificante.
Quindi, in termini di migliori ricordi credo che fossero proprio questi, sebbene ciò che ricordo maggiormente sono stati i lanci. Momenti dinamici, eccitanti, elettrizzanti, un sacco di rumore, vibrazioni, cose che senti profondamente, cose che vuoi raccontare al successivo equipaggio in modo che non abbia sorprese. Il lancio è stata quindi la cosa più memorabile, seguita dal rientro, soprattutto perché facemmo tutto ciò che era stato pianificato pur con un piano di volo ambizioso. Per questo motivo anche il rientro è stata una delle parti più appaganti della missione.
Fra i migliori ricordi c’è stata inoltre l’opportunità di guardare attraverso un finestrino e vedere la Terra per poi guardare da un altro e vedere l’Universo con i suoi miliardi di stelle la fuori. Dallo spazio puoi vedere quattro o cinque volte più stelle di quante ne puoi vedere stando a terra. Si tratta di uno spettacolo che non puoi rendere in fotografia o descrivere affidandoti ai ricordi. Devi essere li per provare la reale sensazione di ciò che vuol dire e questa è la parte gratificante.
E poi c’è stata l’opportunità di rappresentare il mio paese ma anche le società e culture delle nazioni del mondo che hanno collaborato con noi, a volte indirettamente e altre volte tramite i loro stessi astronauti che hanno volato con noi. Fare parte del programma spaziale è stato un grande privilegio e io sento di non aver dato un contribuito solo dal punto di vista materiale, ma anche di aver aiutato altre persone per fare in modo che per loro fosse più facile e più sicuro andare nello spazio e di aver contribuito nel portare la nostra civiltà un passo avanti, facendo dei progressi a beneficio di altre persone nel mondo.
E penso che alcuni dei momenti più appaganti che ho avuto durante l’intero programma spaziale sono stati quelli che ho potuto condividere con molte altre persone. Spesso quando abbiamo avuto momenti eccitanti, come il primo atterraggio sulla Luna, oppure incidenti o tragedie sfiorate come Apollo 13, siamo stati osservati dal mondo intero. In questi casi il resto del mondo non pensa che sia una cosa che riguarda solo l’America, ma che coinvolge tutti in quanto siamo tutti esseri umani che vivono sulla navicella Terra, e il nostro successo è il successo di tutti perché è un bene per tutta l’umanità. Avere il mondo intero che ogni tanto parteggia per noi quando le cose non vanno bene e sentire il suo supporto è un grande contributo al nostro successo, perfino in alcuni fallimenti che abbiamo avuto.
Così, questa è una delle parti più gratificanti, sentire che siamo connessi con altre persone nel mondo in quello che facciamo. Siamo felici che tu sia qui a partecipare a tutto questo come fosse una cosa naturale. Siamo tutti astronauti sulla navicella Terra. Dovremo assisterci a vicenda in queste grandi imprese che fanno di questo mondo un luogo migliore in cui vivere. Siamo felici di essere partecipi quando altre persone fanno delle cose e siamo felici quando loro sono partecipi alle cose che facciamo noi.
Intervista rilasciata all’autore nel novembre 2009.
To be continued…
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