L+200/3: Il bello di essere astronauta: farsi vestire da qualcun altro senza che nessuno rida
Dal Diario di bordo di Samantha Cristoforetti (nota scritta il 04/09/2015):
Avamposto Spaziale ISS. Orbita Terrestre—Giorno di missione 200 (11 giugno 2015)—Questa è la terza di una serie finale di note del diario che ripercorrono la partenza, l’atterraggio e il riadattamento!
[continua] Dopo avere depressurizzato il vestibolo abbiamo seguito per alcuni minuti gli indicatori di pressione del modulo di discesa e del modulo orbitale della nostra Sojuz: entrambi stabili, quindi non c’era nessuna perdita evidente e rapida (non che ce l’aspettassimo!).
Naturalmente dovevamo controllare anche che non ci fosse una perdita lenta, prima di lasciare definitivamente la Stazione e affidarci al portello della Sojuz per trattenere all’interno la nostra aria. L’intero controllo di tenuta stagna avrebbe richiesto 30 minuti, con le misurazioni della pressione nel vestibolo eseguite ogni 5 minuti, ma, visto che non c’era alcuna diminuzione rapida della pressione, abbiamo potuto riaprire in sicurezza il portello del modulo di discesa e galleggiare verso il modulo orbitale per indossare le nostre tute Sokol.
Io ci sono andata per prima, come avevamo pianificato. Anton e Terry sono rimasti nel modulo di discesa mentre io ho usato la toilette della Sojuz. Volevo svuotare la vescica il più tardi possibile: ho indossato un pannolone, ma non ero sicura che sarei stata in grado di usarlo nelle diverse ore di assenza di peso che ancora ci rimanevano fino all’accensione di deorbitazione. Per qualche ragione penso che i pannoloni e l’assenza di peso non vadano d’accordo, come ho scoperto durante l’ascesa.
Ho indossato la cintura biomedica a contatto diretto con la pelle e poi la sottotuta della mia Sokol, segnalando periodicamente ad Anton e Terry le letture di pressione nel vestibolo dal manovacuometro, in modo che potessero riferirle a terra. Nel corso di 30 minuti, l’aumento di pressione massimo consentito per dichiarare i portelli a tenuta stagna era di 1 mm Hg.
Anton mi ha raggiunta nel modulo orbitale per aiutarmi a indossare la Sokol. Per rendere le cose più veloci, mi sono sostanzialmente aggrappata per tenermi il più ferma possibile e lasciare che Anton si occupasse di legare e chiudere con la cerniera tutto quanto. Una delle belle cose dell’essere un’astronauta: potete lasciare che qualcun altro vi vesta da adulti senza che nessuno rida di voi!
Come ha fatto notare Anton, non avevamo molto tempo. Per consentire un test delle antenne Kurs, che sarebbero rimaste in funzione durante il distacco, il controllo a terra avrebbe inviato il comando di attivazione del sistema di guida e navigazione oltre un’ora prima di quanto avrebbe fatto normalmente nel tipico programma di un giorno di partenza. A quel punto stavamo già utilizzando l’ora di Mosca, visto che è l’orario con cui conduciamo le operazioni della Sojuz: la sera prima avevamo annotato diligentemente nelle nostre checklist gli orari importanti basati sul radiogramma mandatoci dal Controllo Missione di Mosca. Ora non era solo il vuoto a separarci dalla Stazione Spaziale ma, in un certo senso, anche tre ore!
Dopo avere indossato completamente la mia Sokol, che mi avrebbe tenuta in vita nel caso di una depressurizzazione durante il rientro, ho bevuto un ultimo sorso d’acqua da un sacchetto che sarebbe rimasto nel modulo orbitale, mangiato un ultimo snack e poi galleggiato verso il mio seggiolino nel modulo di discesa. Non mi è sfuggito che quelli erano i miei ultimi secondi di galleggiamento libero: una volta legata nel mio seggiolino, non mi sarei sganciata fino a dopo l’atterraggio sulla Terra. [continua]
Foto: in tuta Sokol alcuni giorni prima dell’undocking per un controllo di tenuta stagna preliminare.
Nota originale in inglese, traduzione italiana a cura di Paolo Amoroso—AstronautiNEWS. Leggi il Diario di bordo di Samantha Cristoforetti e l’introduzione.
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