La missione Artemis I è stata un grande successo
L’attesissima missione Artemis I è dunque arrivata alla conclusione. Domenica 11 dicembre la capsula Orion della NASA è tornata sulla terra con uno splashdown nell’oceano Pacifico alle 18:40 italiane, centrando perfettamente la zona in cui le squadre di recupero erano pronte ad accoglierla. Dopo aver svolto una serie di test pre-programmati e una completa ricognizione fotografica del veicolo, Orion è stata issata a bordo della nave appoggio anfibia USS Portland un paio d’ore dopo il suo arrivo.
Con la supervisione di NASA, i sommozzatori della Marina Militare statunitense e altri membri del team di recupero si sono avvicinati a Orion a bordo di diversi gommoni, una volta che lo spurgo dell’ammoniaca del circuito di raffreddamento di bordo era stato completato. I sommozzatori hanno quindi agganciato la capsula con un cavo grazie al quale il veicolo spaziale è stato portato sulla nave appoggio. Altri quattro cavi ne hanno poi assicurato la stabilità e il posizionamento su una culla metallica appositamente progettata per aderire allo scudo termico. A quel punto il ponte da carico della nave è stato prosciugato, garantendo ai tecnici un facile accesso alla capsula.
Le fasi del rientro
Il rientro della capsula è durato circa 39 minuti, ed è iniziato attorno alle 18:00 italiane quando il modulo per l’equipaggio della navicella spaziale Orion si è separato con successo dal Modulo di Servizio Europeo. Quest’ultimo, in acronimo ESM, è poi bruciato in modo controllato e innocuo nell’atmosfera sopra l’oceano Pacifico. La traiettoria di Artemis I era stata calcolata per garantire che, nel caso alcune parti del modulo di servizio fossero sopravvissute al rientro, queste non rappresentassero un pericolo per l’incolumità pubblica né interferissero con il percorso della capsula.
Orion ha quindi effettuato una manovra di skip entry, ha cioè evitato di tuffarsi subito negli strati più densi dell’atmosfera, e ha invece “rimbalzato” sull’atmosfera per due volte, similmente a un sasso lanciato a sfiorare la superficie di uno stagno. In generale, questa tecnica di atterraggio consente, oltre a un maggiore comfort per gli occupanti, di controllare con buona precisione il punto esatto dell’atterraggio regolando accuratamente l’angolo di incidenza, indipendentemente da quando e dove le capsule Orion ritornano dalla Luna.
La parte finale del rientro, naturalmente, è stata gestita tramite due sistemi di paracadute che hanno funzionato alla perfezione: due paracadute guida (drogue) hanno rallentato e posto nell’assetto corretto la capsula, e circa un minuto e mezzo dopo i tre paracadute primari hanno rallentato la corsa di Orion fino al contatto con la superficie dell’oceano.
L’atmosfera terrestre ha svolto il lavoro più duro, rallentando la capsula dal oltre 40.000 km/h a circa 500 km/h. I paracadute hanno completato l’opera portando Orion a una velocità finale di circa 32 km/h, perfettamente sicura per il tuffo nell’oceano Pacifico.
Una volta a contatto con l’acqua il sistema CMUS (Crew Module Uprighting System – Sistema di Raddrizzamento del Modulo per l’Equipaggio) ha gonfiato cinque sacche sferiche ripiene di elio e di colore arancione brillante poste sulla sommità di Orion, garantendo che la capsula fosse posizionata “naso all’insù” a prescindere dall’angolazione di impatto con l’oceano. La capsula deve infatti essere in posizione verticale affinché i sistemi di comunicazione del modulo dell’equipaggio funzionino correttamente, oltre che per garantire un minimo di comfort ai futuri membri degli equipaggi al ritorno da lunghe missioni nello spazio profondo.
Una volta messo al sicuro il suo prezioso carico, la USS Portland si è diretta al porto di San Diego, in California, dal quale Orion inizierà un nuovo viaggio per tornare dall’altra parte degli Stati Uniti, al Kennedy Space Center dove sarà sottoposta a un’accurata ispezione e a una serie di procedure post-volo.
Artemis I è stato il primo test integrato dei sistemi di esplorazione dello spazio profondo della NASA – la navicella spaziale Orion, il razzo SLS e i sistemi terrestri di supporto – e la prima di una serie di missioni via via più complesse del programma di esplorazione umana sulla Luna. Grazie alle missioni Artemis la NASA stabilirà una presenza di lungo durata sul nostro satellite, e si preparerà per le missioni umane su Marte.
Fonti: NASA Artemis Blog
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