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C’era una volta la Mir, la stazione spaziale sovietica

La stazione spaziale Mir fotografata dallo Space Shuttle Atlantis (STS-74) il 18 novembre 1995. Credit: Roskosmos

Tra il 1998 e il 2001 vi furono due stazioni spaziali in orbita intorno alla Terra, la sovietica (e poi russa) Mir e la Stazione Spaziale Internazionale (ISS). Il loro è un destino incrociato: la prima – prossima al pensionamento – ha spianato la strada per la seconda che, grazie alle tecnologie rivoluzionarie per l’epoca, ha reso possibile il suo titanico assemblaggio anche utilizzando tecnologie pionieristiche di un antenato comune.

Gli inizi e la costruzione

La Corsa allo Spazio (o altresì detta Prima era spaziale) vide dal 1957 sfidarsi gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica in una lunga battaglia tecnologica, senza esclusione di colpi, per la conquista dello spazio. È qui che affondano le radici della Mir e in particolare nella disfatta sovietica nel programma lunare umano con il poco fortunato lanciatore N1, l’antagonista del potente e affidabile Saturn V. Nel periodo immediatamente successivo all’allunaggio dell’Apollo 11, i sovietici spostarono allora l’attenzione sulle stazioni orbitanti, un progetto a cui gli Stati Uniti stavano già lavorando parallelamente allo sviluppo di una navetta riutilizzabile. Il frutto degli sforzi sovietici si è concretizzato con la prima stazione spaziale Saljut (denominata Saljut 1), lanciata con successo il 19 aprile 1971, che precedette di 2 anni quella statunitense Skylab, messa in orbita soltanto nel maggio ’73.

Il programma Saljut era nato sotto una buona stella e realizzò gli obiettivi prefissati: ricerca scientifica in microgravità e laboratorio per i componenti delle stazioni spaziali del futuro. Nel corso degli anni ricevette degli aggiornamenti e migliorie al progetto originale, che debuttarono con la Saljut 6 il 29 settembre 1977, affinché potesse essere abitata in modo permanente e restare in orbita più a lungo. Essa era suddivisa in 4 sezioni cilindriche: al centro lo “scompartimento di lavoro” adibito al soggiorno dell’equipaggio, ai sistemi di supporto vitale e di controllo della Saljut, una “camera di transizione” per l’attracco di navicelle, che a sua volta era sormontata da un cilindro cavo non pressurizzato contenente i serbatoi per il carburante e i razzi di manovra, e infine all’estremità opposta un “compartimento di trasferimento” che funge sia da ormeggio per navicelle che da camera di equilibrio per le attività extraveicolari.

Oltre a un sistema di propulsione per il controllo d’assetto rivisitato, la modifica più rilevante apportata è stata l’aggiunta di una seconda porta di attracco, la prima generazione di Saljut ne aveva una sola, il ché rese possibile l’aggancio contemporaneo sia della navetta Sojuz dell’equipaggio sia di un veicolo di rifornimento Progress o, durante l’avvicendamento, di una seconda Sojuz. La Progress, che in quel periodo fece il suo volo inaugurale, fu un’alleata essenziale per il sostentamento prolungato (per mesi) dei cosmonauti in orbita, complice anche la possibilità di trasferire il carburante dai serbatoi della navetta a quelli della stazione. Oggi è un’operazione ordinaria, ma all’epoca era una vera e propria rivoluzione! In origine, infatti, la durata della missione era condizionata dalle limitate provviste che si potevano portare a bordo con la Sojuz e alle risorse della Saljut, appena sufficienti per 3 settimane.

Nel frattempo con un decreto del 17 febbraio 1976 l’Unione Sovietica promosse i piani di RKK Energija (oggi sussidiaria di Roskosmos) per una più grande stazione orbitante modulare, derivata dall’esperienza acquisita con le piccole Saljut. I primi bozzetti vennero pubblicati nel 1978 e l’anno seguente iniziarono i lavori di costruzione del modulo base della Mir, questo il nome dato della nuova stazione che in russo significa sia “mondo” che “pace”. Non tutto, però, filò liscio: ritardi dovuti a modifiche al progetto, imprevisti e ridistribuzione nell’84 dei fondi ad altri programmi spaziali (lo spazioplano Buran, lo Space Shuttle sovietico), misero a rischio la Mir. Allora intervenne il governo, che fece pressione affinché si sbloccasse la situazione e si rispettasse la scadenza fissata. Il primo tassello della Mir fu lanciato, entro i termini previsti, da Bajkonur, alle 02:28 locali del 20 febbraio 1986, cioè appena in tempo per il 27º congresso del Partito Comunista.

Il modulo centrale era il cuore della Mir per una serie di motivi tra i quali: sostentamento dell’equipaggio e fulcro per l’espansione della stazione. Come si evince dalla fotografia qui sotto, la parte anteriore era caratterizzata da un nodo sferico con 5 portelli di attracco: 4 di essi erano destinati ai nuovi moduli disposti in modo radiale, mentre quello frontale (riconoscibile nella foto perché ben illuminato) era riservato alle navicelle Sojuz e Progress.

Il modulo base della Mir visto dalla Sojuz T-15. Credit: Roskosmos

Appena 23 giorni più tardi, il 15 marzo 1986, i cosmonauti Leonid Kyzym e Vladimir Solovëv raggiunsero con la loro Sojuz T-15 la Mir per la prima volta. I due vi restarono fino al 16 luglio, tranne una breve parentesi di 50 giorni tra maggio e giugno, durante i quali volarono verso la stazione Saljut 7 per svolgere alcuni lavori e per recuperare circa 400 kg di attrezzature ed esperimenti per la nuova stazione. Durante il soggiorno a bordo della Mir, Leonid Kyzym e Vladimir Solovëv si occuparono della messa in funzione dei vari sistemi e della sistemazione delle merci consegnate dalle due Progress attraccate poco dopo il loro primo arrivo, le quali contenevano provviste e strumentazioni scientifiche da installare nella loro sede.

L’anno seguente ebbe avvio l’ampliamento della Mir. Nell’aprile 1987 fu aggiunto il modulo Kvant-1 specializzato nelle ricerche nel campo astronomico, infatti era equipaggiato, tra i tanti strumenti, con telescopi sensibili alle lunghezze d’onda dell’ultravioletto e ai raggi X. In tutto ci vollero altri 9 anni e 5 moduli affinché la Mir fosse completata, ognuno dei quali con uno scopo e utilizzo ben preciso. Nell’ordine furono aggiunti: nel dicembre 1989 Kvant-2 (modulo polivalente utilizzato anche come airlock per le EVA e per studi astronomici), nel giugno 1990 Kristall (studi inerenti la tecnologia dei materiali e la biotecnologia), nel giugno 1995 Spektr (osservazione della Terra e fonte primaria di corrente elettrica), nel novembre 1995 Stykovočnyj Otsek (il modulo per l’attracco dello Space Shuttle) e infine nell’aprile 1996 Priroda (laboratorio per lo studio degli effetti delle radiazioni cosmiche sull’uomo e ricerche inerenti le scienze della Terra). Ad eccezione del penultimo modulo che fu messo in orbita dallo Space Shuttle Atlantis, tutti gli altri sono stati lanciati da Bajkonur con il vettore Proton-K.

Il modulo Kvant-1 agganciato alla Mir con alla sua destra la Sojuz. TM-2 Credit: Roskosmos

L’inesorabile trascorrere del tempo si risentì sulla Mir. Progettata con una vita utile di 5 anni, gli anni ’90 furono costellati da una moltitudine di guasti e malfunzionamenti minori, ma anche di incidenti piuttosto gravi, che ne segnarono il destino. Ad esempio il 23 febbraio 1997 un generatore di ossigeno chimico Vika, che genera ossigeno dalla decomposizione dal perclorato di litio (un sale), prese fuoco nel modulo Kvant-1 e produsse una densa coltre di fumo. L’equipaggio a bordo riuscì a tamponare egregiamente l’emergenza, sebbene con qualche peripezia.

Sicuramente l’episodio più famoso è quello che avvenne il 25 giugno 1997: la collisione della Progress M-34 con il modulo Spektr durante un test di attracco manuale. L’impatto danneggiò in modo pesante i pannelli fotovoltaici e causò la perforazione dello scavo e la conseguente depressurizzazione della stazione. Ancora una volta l’equipaggio rispose prontamente alla situazione, isolando il modulo ed evitando il peggio.

La Mir vista dallo Space Shuttle Discovery nell’ultima visita della navetta statunitense (4–8 giugno 1998). Credit: NASA

Si tentò fino all’ultimo di poter salvare, anche con contributi privati, la stazione dalla sua inevitabile sorte: la Mir aveva fatto il suo tempo. La creazione della Stazione Spaziale Internazionale e le difficoltà economiche della Russia, non sufficienti per pagare la riparazione e il mantenimento in orbita della Mir e della ISS, accelerarono i piani per il rientro atmosferico distruttivo. La decisione definitiva fu presa nel novembre 2000 e approvata il mese successivo con un decreto del Primo Ministro russo Michail Kas’janov.

La procedura per il rientro era molto complessa e articolata, in quanto non si era mai fatto deorbitare un oggetto così grande e pesante. La Mir aveva un volume interno di circa 400 m³ e una massa intorno alle 125 tonnellate. Per confronto la ISS ha uno spazio abitabile due volte più grande e un peso 3 volte maggiore.

Oramai era una questione di mesi, il 24 gennaio 2001 venne inviata alla Mir la Progress M1-5 alla quale attraccò 3 giorni più tardi, con oltre 2.500 kg di carburante. Si è dovuto attendere fino al 23 marzo affinché ci fossero le condizioni ideali per la discesa finale, sfruttando anche il naturale attrito atmosferico che nel mentre abbassò gradualmente l’orbita della Mir, facendo risparmiare il prezioso combustibile. Complessivamente la Progress accese 3 volte i suoi propulsori in momenti specifici, con l’ultima accensione che avvenne alle 05:07 UTC. Meno di 40 minuti più tardi, all’impatto con gli strati alti dell’atmosfera terrestre sopra una zona remota dell’Oceano Pacifico (chiamato Punto Nemo), la Mir iniziò a disintegrarsi e arse man mano che attraversava gli strati più densi.

Curiosità e statistiche e… un confronto con la ISS

La Mir è stata operativa per circa 5.511 giorni, dal 20 febbraio 1986 al 23 marzo 2001, e 28 equipaggi principali – in forma abbreviata Mir EO – che si sono alternati a bordo, a partire dai cosmonauti Leonid Kyzym e Vladimir Solovëv. Fatta eccezione del 2001, la stazione è sempre stata abitata, seppur i primi anni in modo discontinuo sia per la mancata sovrapposizione tra l’equipaggio rientrante e quello nuovo sia per missioni dirette dalla Mir alla stazione Saljut 7, per un totale di 4.594 giorni (l’83% del tempo). Di questi, per 3.641 giorni consecutivi la stazione non fu mai lasciata da sola, in lunga striscia iniziata il 7 settembre 1989 e terminata il 27 agosto 1999. Il primato è stato poi battuto dalla Stazione Spaziale Internazionale nell’ottobre 2010, tutt’ora ininterrotto, e del quale abbiamo di recente celebrato i 20 anni dalla Expedition 1.

Il contributo della Mir alla comunità scientifica è di inestimabile valore. Grazie alle sofisticate dotazioni tecniche, i ricercatori hanno osservato, per esempio, l’esplosione di una stella supernova oppure buchi neri e analizzato l’atmosfera terrestre. Si stima che in 15 anni siano stati condotte più di 23.000 ricerche, alcune delle quali uniche e mai più replicate.

Un ruolo centrale hanno avuto anche le conoscenze inerenti l’adattamento del corpo umano alla condizione di microgravità. La Mir è stata infatti teatro di diversi record di lunga durata, basti pensare che ben 4 cosmonauti vi vissero in modo continuativo per circa 12 mesi (Sergej Avdeev, Vladimir Titov e Musa Manarov) e uno di loro – Valerij Poljakov – addirittura per 14 mesi, per la precisione 435 giorni, ovvero dal 10 gennaio 1994 al 22 marzo 1995. Si tratta di un primato senza precedenti e mai eguagliato o avvicinato da nessun altro.

Valerij Poljakov era sia un cosmonauta che un medico e il compito principale della sua stoica missione era quello di dimostrare che una persona era in grado di lavorare per così tanto tempo in microgravità, se supportata a dovere dai medici e da un esercizio fisico costante e specifico, che riuscisse a contrastare gli effetti negativi del volo spaziale. Un aspetto da non trascurare fu la riabilitazione sulla Terra dopo il rientro, che dimostrò sulla sua pelle l’efficacia di tale programma.

Senza dubbio bisogna dare alla Saljut prima e alla Mir poi il merito di aver messo in primo piano l’importanza della cooperazione internazionale, accentuata soprattutto dalla caduta dell’Unione Sovietica e la fine della Guerra Fredda con gli Stati Uniti. I programmi Interkosmos (1978–1991), EuroMir (1988–1999) e Shuttle-Mir (1993–1998) aprirono le porte delle stazioni sovietiche anche a persone nate fuori dai confini nazionali, instaurando relazioni preziose per la Stazione Spaziale Internazionale. Sui 104 cosmonauti e astronauti saliti sulla Mir, sia per soggiorni brevi che di lunga durata, 62 di questi erano stranieri, con gli Stati Uniti la nazione più rappresentata (44), seguita da Francia e Germania con 5 e 4 astronauti rispettivamente.

L’equipaggio dello Space Shuttle Atlantis (STS-79) insieme al ventiduesimo equipaggio principale della Mir. Credit: NASA

Gli astronauti statunitensi, francesi e tedeschi ebbero l’occasione partecipare in modo attivo alla vita di bordo, prendendo parte sia ad alcuni equipaggi principali sia affiancando i colleghi russi nelle passeggiate spaziali per la manutenzione dell’avamposto. In cambio di finanziamenti, la Russia riservò agli Stati Uniti una parte dello spazio interno del modulo Spektr, affinché vi potessero installare la loro strumentazione scientifica per condurre studi biomedici.

Prima concludere, una panoramica sulle quote rosa della Mir. Benché poco rappresentate, anche le donne stabilirono dei primati di durata, che forse sono poco conosciuti, ma non meno importanti. L’astronauta statunitense Shannon Lucid e la cosmonauta Elena Kondakova (terza sovietica nello spazio) sono state le uniche membri di una spedizione principale. Durante la loro permanenza sulla Mir, fissarono il record femminile del singolo volo spaziale più lungo per le rispettive nazioni. I 188 giorni di Shannon Lucid consecutivi nello spazio sono stati superati più di 10 dopo da Sunita Williams, mentre i 169 giorni di Elena Kondakova sono ancora imbattuti, avvicinati solamente nel 2015 dai 167 di Elena Serova.

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