Rocket Lab: «un grande passo» verso la riusabilità dell’Electron
Il 2019 si conclude con ottimi auspici per Rocket Lab, l’azienda specializzata in piccoli lanciatori con sede in California ma con cuore neozelandese. Nel corso dell’anno sono stati effettuati sei voli dell’Electron: un ritmo di lancio non trascurabile per un veicolo che ha appena due anni di vita e che, a parte un fallimento iniziale, ha sempre raggiunto l’orbita con successo.
L’ultima missione riuscita si è svolta venerdì 6 dicembre. Era la decima e, giustamente, era stata ribattezzata Running Out Of Fingers: d’ora in avanti non basteranno le dita per tenere il conto dei lanci dell’Electron. L’obiettivo principale del volo era inserire in orbita polare (a 400 km di quota) sette piccoli satelliti, ma l’attenzione degli appassionati era rivolta principalmente allo scopo secondario, ossia testare una nuova versione del primo stadio, pensata per il recupero, monitorandone il rientro guidato in atmosfera.
Rocket Lab aspira infatti a diventare la seconda azienda, dopo SpaceX a riutilizzare il primo stadio del proprio lanciatore orbitale, e sta mettendo a punto una sua propria tecnica di recupero, che non richieda l’uso dei propulsori per l’atterraggio.
A questo scopo, nel suo decimo volo, il primo stadio dell’Electron è stato equipaggiato con thruster per il controllo di assetto e di un nuovo hardware di navigazione, che comprende un computer di volo e sistemi per la trasmissione della telemetria in banda S, in modo da consentire il monitoraggio da terra, secondo per secondo, della procedura di rientro.
Nessuna velleità di recupero in questo primo test, in cui non è stato impiegato nessuno dei dispositivi che permetteranno di rallentare la discesa dello stadio e di agganciarlo in volo con un elicottero. Il proposito era solo quello di guidare lo stadio nella discesa a velocità ipersonica attraverso l’atmosfera, fino alla quota più bassa possibile e di raccogliere dati. Non a caso il sistema di supporto ai voli di Rocket Lab è stato da poco potenziato con l’attivazione di una nuova antenna parabolica da 5 metri presso lo spazioporto privato di Mahia, in modo da destinare altre risorse al tracking del primo stadio.
Il decimo volo
Il decollo di Running Out Of Fingers, previsto per le 8:56 del 29 novembre, era stato inizialmente posticipato di una mezz’ora, per evitare il rischio di collisione con un altro oggetto in orbita (un problema destinato in futuro a diventare sempre più rilevante) e poi rinviato a causa una non meglio specificata anomalia degli “umbilical” (le connessioni che garantiscono il flusso di propellenti, ma anche di energia e di dati, tra il razzo e la piattaforma di lancio) del secondo stadio.
Solo quando in Italia erano le 9:18 del 6 dicembre, risolti i problemi tecnici e atteso per una ventina di minuti il quietarsi del vento sul pad, l’Electron si è innalzato nel cielo ormai buio della Nuova Zelanda, sopra le fiamme dei suoi nove motori Rutherford. Nell’oscurità le immagini della telecamera di bordo, trasmesse in diretta web, non mostravano nulla di particolarmente spettacolare, salvo il modificarsi della forma degli esausti incandescenti, via via che l’atmosfera diveniva più rarefatta.
Come previsto, i motori del primo stadio hanno spinto il razzo per i primi 2 minuti e 36 secondi, lasciando poi il testimone al singolo Rutherford Vacuum del secondo stadio. Dopo la separazione, per qualche minuto, la diretta di Rocket Lab ha seguito letteralmente il modello di SpaceX mostrando sullo schermo, contemporaneamente, le immagini dell’ugello incandescente del secondo stadio, che proseguiva la sua corsa, e il profilo del primo stadio in caduta verso la terra.
Dopo poco, tuttavia, la regia si è concentrata sulla missione principale, che intanto procedeva regolarmente attraverso i passi previsti: a T+3:13 avveniva la separazione delle ogive protettive, seguita, dopo poco più di tre minuti, dall’espulsione delle batterie esauste e, infine, dopo altri due minuti e mezzo, dallo spegnimento del motore del secondo stadio.
A 8 minuti e 52 secondi dal liftoff la velocità orbitale era raggiunta. Il razzo si trovava in un’orbita di trasferimento di 385,97 km di apogeo, 186,01 di perigeo con un’inclinazione di 97,01°.
La diretta si interrompeva appena dopo la separazione del secondo stadio dal “kickstage”, il piccolo stadio superiore incaricato di innalzare il perigeo, rendendo l’orbita circolare. Per compiere questa manovra occorreva arrivare in prossimità del punto più alto della traiettoria e quindi attendere una quarantina di minuti. Il motore Curie eseguiva il suo compito con un accensione un minuto e mezzo. A un’ora esatta dal lancio iniziava il rilascio dei payload.
Quali satelliti?
Anche se Rocket Lab si vanta di fornire principalmente lanci dedicati, fatti su misura per il singolo cliente, quello di venerdì era un vero e proprio “rideshare”, ossia un volo condiviso, acquistato da due distinti provider di lanci, la statunitense Spaceflight e l’inglese Alba Orbital.
Il payload principale, con un peso di 75 kg e dimensioni di 60×60×80 cm, era costituito da ALE-2, realizzato da Astro Live Experience Co., una società giapponese che intende commercializzare satelliti in grado di realizzare, rientrando in atmosfera, una pioggia colorata di “stelle candenti”, ossia una sorta di spettacolo pirotecnico dall’alto.
ALE-2, che è una versione potenziata di un precedente dimostratore lanciato nel gennaio scorso e ancora in orbita, è dotato di 400 proiettili di 5 colori diversi e monta piccoli propulsori per effettuare il deorbiting e dare vita alle meteore artificiali, che saranno visibili entro un’area di 200 km. Il momento e il luogo dello spettacolo non sono stati ancora rivelati, ma non è priva di fondamento l’ipotesi secondo la quale le “stelle candenti” appariranno sui cieli del Giappone la prossima estate, in occasione delle Olimpiadi.
Il resto del carico era costituito da “PocketQube”, ossia cubesat miniaturizzati, il cui standard (1p) è un cubo di 5 cm di lato (e quindi di un ottavo del volume di un normale cubesat 1U) del peso di 250 grammi. Tutti e sei sono stati costruiti da Alba Orbital.
Tra questi, l’ungherese ATL-1 è un 2p che vuole testare, tra l’altro, un nuovo materiale di isolamento termico, mentre NOOR 1A e NOOR 1B, della stessa Alba Orbital, sono due gemelli 3p che dimostreranno un sistema di comunicazione tra satelliti in orbita bassa. Sono di dimensioni 1p e dimostratori di tecnologie di comunicazione lo spagnolo FossaSat-1 e il tedesco TRSI-Sat. Infine, SMOG-P è un 1p realizzato dagli studenti dell’Università di Budapest che misurerà dallo spazio l’inquinamento elettromagnetico.
«Un grande passo»
Nel giro di un’ora e mezza tutti i satelliti sono stati collocati nelle orbite programmate, con piena soddisfazione di Rocket Lab e di tutti i suoi clienti. Gli unici a restare un po’ delusi erano coloro che avrebbero desiderato avere qualche notizia in più (magari anche documentata da immagini) sulla sorte del primo stadio e che hanno invece dovuto accontentarsi dei pochi tweet con i quali Beck annunciava che il recupero si era svolto meglio di quanto atteso.
Il CEO di Rocket Lab precisava che il primo stadio è riuscito ad «attraversare il muro», ossia l’ambiente proibitivo dal punto di vista delle temperature e delle sollecitazioni aerodinamiche determinato dal rientro atmosferico a velocità ipersonica, giungendo intatto al livello del mare.
In più, durante la discesa il veicolo ha fornito un solido flusso di informazioni telemetriche che, attraverso l’analisi che sarà compiuta nelle prossime settimane, permetteranno di perfezionare il profilo del volo in vista di un primo vero tentativo di recupero, che si intende mettere in atto nel 2020.
Il successo del decimo volo contribuisce a dare maggiore concretezza e verosimiglianza al proposito della giovane azienda californiana di sostenere, nel giro di qualche anno, il ritmo di quattro lanci al mese. La disponibilità dei veicoli necessari sarà ottenuta sia attraverso il riutilizzo dei primi stadi, sia mediante il potenziamento delle capacità produttive, sul quale vengono fatti i più rilevanti investimenti. Proprio qualche settimana fa Rocket Lab ha diffuso le immagini di “Rosie” un robot in grado di preparare la struttura in fibra di carbonio di un Electron, già predisposta per successivo il montaggio dei componenti, in appena 12 ore.
Nonostante le sue piccole dimensioni e senza avere alle spalle i capitali di imprenditori miliardari, Rocket Lab, lancio dopo lancio, continua a confermarsi come uno dei soggetti più promettenti tra le aziende del new space.
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Complimenti a Rocket Lab, azienda molto promettente. Non vedo l’ora di assistere ai recuperi anche da parte loro: la cattura con l’elicottero sarà molto interessante!