Rocket Lab ha in cantiere un Electron riutilizzabile
Rocket Lab ha cambiato idea sulla riusabilità. La giovane società che nel giro di pochi anni si è ritagliata uno spazio di tutto rispetto nel mercato dei piccoli lanciatori per cubesat e microsatelliti, dopo aver per lungo tempo negato ogni interesse in merito, è tornata sui suoi passi rivelando un progetto già avviato per recuperare e riutilizzare il primo stadio del proprio Electron.
A parlarne è stato il fondatore e CEO Peter Beck, intervenuto all’annuale Small Satellite Conference lo scorso 6 agosto, senza tentare di nascondere la propria incoerenza ma prendendone anzi spunto per un po’ di ironia: «Ho detto pubblicamente che Rocket Lab non l’avrebbe mai fatto», ha ammesso, «e ora devo mangiarmi il cappello».
In realtà Beck è sempre convinto che la modalità di recupero sperimentata con successo dal Falcon 9 di SpaceX e basata sull’impiego dei propulsori non possa essere applicato all’Electron. «È una delle cose che non si possono applicare a un piccolo lanciatore»: occorrerebbe appesantire il veicolo e trasformarlo così nell’ennesimo vettore di classe media, con tutte le conseguenze che ne deriverebbero. Il modello di business di Rocket Lab consiste invece nel proporre opportunità di voli dedicati e frequenti destinati ai piccoli satelliti e ciò si può ottenere solo con un lanciatore di dimensioni ridotte ed economico.
Quadruplicare la produzione
Tuttavia è stata proprio l’esigenza di assicurare un’elevata frequenza di voli che ha condotto a riconsiderare la riusabilità da un altro punto di vista. Secondo Beck, infatti, per soddisfare le esigenze del mercato, nell’arco dei prossimi due anni Rocket Lab dovrebbe essere in grado di effettuare un lancio ogni settimana.
L’azienda possiede già le infrastrutture di base necessarie: lo spazioporto di Mahia, in Nuova Zelanda, è già autorizzato per un liftoff ogni 72 ore per trent’anni e a esso si aggiungerà il nuovo pad in costruzione negli Stati Uniti, a Wallops Island, denominato Launch Complex 2 (LC2): i lavori sono iniziati in gennaio e dovrebbero essere completati prima di fine anno.
Il problema è che, nonostante l’ampliamento degli impianti negli Stati Uniti e in Nuova Zelanda, l’acquisto di nuove stampanti 3D per la produzione dei motori Rutherford e l’assunzione «a ritmi pazzeschi» di nuovi dipendenti, al momento Rocket Lab riesce a completare un solo Electron ogni 30 giorni. Anche se grazie agli investimenti già effettuati questo limite sarà presto superato, è evidente che poter recuperare almeno una parte di hardware rappresenterebbe un notevole aiuto. Di conseguenza, secondo Beck la riusabilità non è tanto finalizzata a ridurre i prezzi quanto ad accrescere la produttività.
Come abbattere “il muro”
Nel 2017 l’Electron ha iniziato a volare, e, lancio dopo lancio, gli ingegneri di Rocket Lab hanno acquisito sempre più informazioni su quanto accade al loro vettore: «l’Electron è fondamentalmente un laboratorio volante: abbiamo circa 15.000 canali di telemetria durante il volo, così ogni volta raccogliamo una quantità di dati impressionante». È stato proprio il paziente esame di questo cumulo di dati che, tramite vari tentativi di modellizzazione, ha condotto Beck e i suoi ingegneri a individuare la strategia per il recupero del primo stadio.
In apparenza il progetto non presenta nulla di particolarmente innovativo. Come mostra l’animazione proiettata durante la presentazione, una volta esaurito il suo compito il primo stadio attraversa una lunga fase di rientro in atmosfera, poi dispiega un paracadute che viene agganciato dall’alto da un normale elicottero a guida umana. Nessun drone, nessuna “rete” o altro dispositivo particolare.
In un’intervista ad Ars Technica, Beck non ha avuto difficoltà ad ammettere che l’idea del recupero al volo è piuttosto vecchia, risalendo addirittura al programma Corona, iniziato alla fine degli anni ’50, quando le pellicole fotografiche con le immagini riprese dai satelliti spia dovevano essere riportate a terra e sviluppate. Ma non è questo l’aspetto impegnativo della missione: «molti pensano che la cattura con l’elicottero sia la cosa più difficile da fare», sostiene il CEO di Rocket Lab (che è anche un pilota dilettante), «ma in realtà è il particolare di cui mi preoccupo di meno. La vera sfida è attraversare l’atmosfera e rientrare a una velocità ragionevole».
Parlando al pubblico Beck ha rappresentato chiaramente questa sfida, che significa superare quell’insieme di difficoltà che a Rocket Lab hanno chiamato the wall, “il muro”. Durante il volo dell’Electron il primo stadio viene rilasciato quando ha raggiunto una velocità pari a circa 8,5 volte quella del suono; per il recupero occorre quasi azzerarla, riducendola a 0,01 mach. In soli 70 secondi si deve disperdere una quantità notevolissima di energia, pari a 3,5 gigajoule (quanto consumato nell’unità di tempo da 57.000 abitazioni, ha aggiunto Beck per dare maggiore concretezza al numero). Nel rientro, il veicolo, con una struttura in fibra di carbonio dello spessore di 0,8 millimetri, si troverà esposto a fortissimi carichi aerodinamici, «come se ci fossero sopra tre elefanti», e a contatto con il plasma «la cui temperatura è circa la metà di quella del Sole».
Rocket Lab ritiene di aver individuato le giuste soluzioni per affrontare queste condizioni estreme. Soluzioni innovative, sulle quali Beck, sia nella presentazione sia nelle interviste, è stato piuttosto parco di dettagli. Tutto avverrà in modo passivo, cioè senza ricorrere a mezzi propulsivi: la nuova versione del primo stadio sarà dotata di sistemi termoprotettivi e di «deceleratori aerodinamici» che permetteranno sia di controllare il veicolo sia di ridurne la velocità. Qualcosa di equivalente alle grid fin del Falcon 9 benché non necessariamente una loro replica.
We do what we say will do
Ma quando sarà realizzato questo progetto? Fedele al proprio pragmatico motto We do what we say will do, “facciamo ciò che diciamo di fare” (in cui non è difficile leggere un accento polemico verso le troppe promesse sovradimensionate rispetto alle concrete possibilità di realizzazione che vengono ampiamente elargite nel mondo dello spazio), Rocket Lab ha già iniziato a realizzarlo.
L’idea della riusabilità è stata concepita alle fine del 2018, dopo il quarto volo di Electron. A partire dalla missione n. 6 del 5 maggio scorso è iniziata anche una specifica raccolta di dati al di là della telemetria ordinaria. L’ottavo volo, in procinto di decollare da Mahia (al momento della pubblicazione di questo articolo è in programma per il 16 agosto) sarà fondamentale, perché sarà introdotto a bordo un sistema avanzato di registrazione dei dati (nome in codice “Brutus”) che seguirà il primo stadio in tutte le fasi del rientro fino allo splash down in mare. Queste ulteriori informazioni permetteranno di validare i modelli fino a ora elaborati e di mettere a punto la traiettoria di rientro.
Con il volo n. 10, che a detta di Beck sarà un block update del vettore, compariranno le prime modifiche visibili dell’hardware. A beneficio dei clienti Beck si è affrettato a chiarire che questi aggiornamenti resteranno interni all’Electron, non avranno impatto sul payload e non comprometteranno in alcun modo la sicurezza del volo.
A seguire (non è ancora possibile indicare in quale volo, ma comunque nel 2020), inizierà la prima fase del programma di riutilizzo. Per un certo periodo il rientro controllato si concluderà con l’ammaraggio; il primo stadio sarà ripescato e riportato a terra «per essere ricondizionato», come afferma il comunicato di Rocket Lab. Solo in un secondo tempo si effettuerà il recupero in volo, che aprirà la strada al riutilizzo ordinario.
Quante volte potrà tornare a volare un primo stadio recuperato? Ovviamente è impossibile dirlo prima di averne esaminate le condizioni dopo il rientro. Al momento gli obiettivi di Beck sono abbastanza prudenti. Anche se ogni veicolo potesse essere utilizzato solo due volte sarebbe come raddoppiare la produzione: «una volta sarebbe meraviglioso. Qualsiasi cosa in più sarebbe davvero fantastico».
Rocket Lab resterà competitiva
Nel corso del tempo la prospettiva del riutilizzo permette a Rocket Lab di puntare realisticamente al traguardo di un lancio alla settimana e di affrontare con ottimismo le sfide di un mercato in rapida evoluzione. Beck non vede un pericolo nella recente iniziativa di SpaceX che con lo Small Rideshare Program offrirà a prezzi fortemente concorrenziali lanci su Falcon 9 in orbita eliosincrona totalmente dedicati a nano e microsatelliti e perciò non legati alle esigenze di un payload principale. L’azienda di Elon Musk ha in calendario uno solo di questi rideshare (voli condivisi) all’anno. «Il tipo di cliente che vola su Electron non è alla ricerca di un rideshare: è interessato a un servizio dedicato e agli enormi vantaggi che ciò comporta. Quindi, dal nostro punto di vista, non vediamo alcuna sfida o minaccia per la nostra attività».
Neanche l’impressionante moltiplicarsi di società dedicate allo sviluppo di piccoli lanciatori (nel corso dell’ultima Small Satellite Conference se ne sono contate ben 130) sembra costituire una minaccia per la giovane società di origine neozelandese. Rocket Lab ha già conseguito un duplice vantaggio: il suo Electron ha già volato e, fatto di non minore importanza, ha già iniziato a farlo in modo regolare («ci siamo resi conto che per arrivare a volare una volta al mese ci è voluta la stessa quantità di tempo, capitali ed energie che è stata necessaria per effettuare il primo volo»); per il momento i concorrenti possono invece offrire ai potenziali clienti solo i rischi, sia in termini di sicurezza sia di rispetto delle tempistiche, di veicoli che esistono solo sulla carta o sono ancora in fase di sviluppo.
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Molto bene, complimenti per la scelta e buona fortuna a Rocket Lab per il riutilizzo dei suoi lanciatori.
La cosa non può che farmi piacere (anche per la sostenibilità, ciò è una riduzione dell’impatto ambientale).