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Sono le radiazioni il vero ostacolo all’esplorazione umana del cosmo?

Cortesia: NASA

A oltre 50 anni dal volo di Yuri Gagarin i programmi spaziali sembrano bloccati in orbita bassa terrestre. Quali sono le sfide ancora da vincere per raggiungere nuove destinazioni nel Sistema Solare? Siamo pronti, fisicamente e tecnologicamente, a fare il grande balzo fuori dal cortile di casa?

Il punto della situazione

L’esplorazione umana del Sistema Solare è la protagonista indiscussa dei sogni di ogni appassionato di astronautica. Fin dai tempi di Giovanni Schiaparelli, Camille Flammarion e Percival Lowell, passando per l’epopea delle missioni Apollo, gli esseri umani sognano di lasciare la culla terrestre per assecondare la propria innata curiosità ed esplorare nuovi mondi. Subito dopo l’allunaggio di Apollo 11, nella lontana notte tra il 20 e il 21 luglio 1969, l’agenzia spaziale statunitense iniziò a costruire un futuro che sapesse coniugare le conoscenze acquisite tramite il programma lunare con il desiderio di progredire verso la successiva tappa, considerata quasi naturale, di uno sbarco umano sul Pianeta Rosso. Sappiamo però che il ricco programma auspicato dallo Space Task Group nel suo rapporto al Presidente Nixon sia naufragato quasi totalmente, con la sola eccezione dello Space Shuttle e (anche se con molti anni di ritardo) della Stazione Spaziale.

Per circa 15 anni la storia dei programmi crewed di NASA è stata legata a doppio filo al solo sviluppo dell’orbiter e della stazione, mentre Marte rimaneva all’orizzonte, un distante miraggio. A partire dalla missione Mars Pathfinder del 1996, sull’onda dell’enorme successo tecnico e di interesse pubblico suscitato dal primo piccolo rover semovente a muoversi sulle sabbie marziane, NASA si è riappropriata del tema del “viaggio verso Marte” trasformandolo in un vero e proprio mantra. I riferimenti alla conquista del pianeta rosso sono oggi presenti in una miriade diversissima di prodotti per le pubbliche relazioni, mentre parallelamente, dal lato dello sviluppo delle tecnologie abilitanti, NASA da anni sta conducendo svariati esperimenti medici e test tecnologici a bordo della ISS, al fine di accumulare dati ed esperienza in attesa dell’amministrazione del momento giusto per metterli a frutto.

Negli anni sono state acquisite capacità chiave come l’assemblaggio e la manutenzione di strutture spaziali complesse, la costruzione di hardware spaziale di grande qualità capace di resistere alle condizioni cosmiche per decenni, l’armonizzazione di standard elettrici e meccanici di parti costruite in paesi diversi, l’esperienza in termini di attività extraveicolari (sono oltre 1200, ad oggi, le ore di EVA dedicate all’assemblaggio della ISS), la tessitura di un’intricata rete di relazioni internazionali, la ricerca medica e il progressivo aumento della durata delle spedizioni a bordo dell’avamposto orbitale.

Moltissimi studi si sono susseguiti alla ricerca delle configurazioni  hardware e delle tecnologie ISRU (In Situ Resources Utilization) più adatte a ipotetiche spedizioni umane verso Marte e altre destinazioni nel Sistema Solare, mentre ogni nuova Amministrazione  ha rilasciato un suo documento di policy spaziale delineando scenari più o meno realistici per il nuovo, grande balzo del genere umano nel cosmo. Come abbiamo descritto in un articolo pubblicato su AstronautiNEWS all’inizio di aprile, l’ultima “vision” pubblicata da NASA in ordine di tempo propone la realizzazione di un doppio programma: il Deep Space Gateway e il Deep Space Transport, con lo scopo di costruire un avamposto orbitante attorno alla Luna e di lì partire alla volta di Marte e altre destinazioni deep space. Trascurando ogni incertezza, se un OK formale e adeguati fondi giungessero oggi a NASA e ai suoi partner internazionali per procedere con questi due programmi, saremmo veramente pronti a partire?

Per dare una risposta a questo interrogativo vanno analizzati due ordini di problemi:

Per gli scopi di questo articolo gli elementi relativi alle sfide ingegneristiche dei viaggi nello spazio profondo con equipaggi umani saranno solamente accennati, mentre particolare attenzione sarà posta nell’analisi delle problematiche legate all’esposizione degli astronauti a dosi di radiazioni ionizzanti mai sperimentate in precedenza nella storia dell’esplorazione del cosmo. Come si vedrà, infatti, pur senza sottovalutare le enormi sfide tecniche dei viaggi interplanetari, il lato ingegneristico appare essere quello relativamente meno problematico da implementare nel breve/medio termine.

Qualche dato tecnico sulle radiazioni ionizzanti

La quantità di radiazioni cosmiche cui un astronauta viene esposto quando si trova in orbita terrestre dipende da un certo numero di fattori:

Lo spettro delle radiazioni – (C) NASA

Prima di continuare con la discussione è utile approfondire brevemente le unità di misura coinvolte nella quantificazione delle radiazioni e dei loro effetti:

Gli equipaggi a bordo della ISS per una delle tipiche Expedition della durata di 6 mesi ricevono in media 80 mSv in periodo di massimo solare (cioè un periodo nel quale sul Sole è presente una grande quantità di macchie solari e che si accompagna ad un’espansione del campo magnetico solare in grado di deflettere le sue particelle), e 160 mSv se la missione si svolge in un periodo di minimo solare (cioè un periodo nel quale il numero di macchie solari è minimo così come l’intensità del campo magnetico della nostra stella). Gli equipaggi potrebbero comunque eccedere questi dati medi se impegnati in attività extraveicolari, in quanto abbandonano l’effetto protettivo delle pareti della ISS.

MissioneDose
Superficie terrestre, in media (dato annuale)2,4 mSv
STS 41-C
(8 giorni in orbita terrestre a ~460 km)
5,59 mSv
Apollo 14
(9 giorni sulla Luna)
 11,4 mSv
 Skylab 4
(87 giorni in orbita terrestre a ~473 km)
178 mSv
Expedition ISS
(fino a 6 mesi in orbita terrestre a ~360 km)
 160 mSv
 Missione triennale verso Marte 1200 mSv

Per tradurre questi numeri in qualcosa sperimentato da tutti, 1 mSv corrisponde all’irraggiamento subito nel corso di 3 radiografie al petto. Per paragone, sulla Terra esiste ovunque il fenomeno della radioattività naturale che causa in media un’esposizione di 2,4 mSv l’anno (3,3 mSv per l’Italia).

Il termine “radiazioni” è dunque un termine vago, che ricomprende una gamma diversificata di particelle ad alta energia che possono entrare in contatto con il corpo umano. Nel contesto delle missioni spaziali possiamo riconoscere i seguenti tipi di radiazione:

Le radiazioni e le particelle ad alta energia intrappolate nel campo magnetico terrestre non rappresentano un grosso problema, in quanto le prime sono localizzate in punti precisi mentre le seconde non sono molto energetiche se confrontate con le altre.  Il vero rischio viene dunque dalle particelle di origine cosmica e solare.

L’ostacolo delle radiazioni cosmiche all’esplorazione del Sistema Solare

Le radiazioni cosmiche rappresentano uno degli ostacoli più complessi che le agenzie spaziali si trovano ad affrontare per rendere credibili i loro piani di esplorazione umana oltre l’orbita bassa terrestre. Nel caso più sfavorevole i partecipanti alle spedizioni sulla ISS ricevono circa 60 volte la dose naturale ricevuta a livello del suolo sulla Terra. In un ipotetico viaggio triennale verso Marte l’esposizione salirebbe a 500 volte tanto.

Nonostante siano trascorsi 56 anni dal primo volo umano nello spazio la NASA e le altre agenzie spaziali non hanno ancora un quadro chiaro dei rischi legati all’esposizione prolungata alle radiazioni, e ad oggi non esiste ancora un protocollo standard per la gestione di questo rischio. Nonostante questo NASA sta cercando la collaborazione con i suoi partner internazionali per lasciare la protezione del campo magnetico terrestre e avventurarsi in orbita lunare, con l’intenzione di raggiungere Marte alla fine degli anni 30 del secolo. Se non vi saranno sviluppi sostanziali nei prossimi 5-10 anni nel campo della schermatura delle radiazioni, è probabile che le agenzie spaziali dovranno violare i limiti che si sono auto-imposte fino ad ora.

Come il NASA Office of Inspector General ha dichiarato nel suo rapporto IG-16-003 “NASA’s Efforts to Manage Health and Human Performance Risks for Space Exploration” del 2016, la situazione è tutt’altro che definita.

“Nonostante NASA continui a migliorare i suoi processi per identificare e gestire i rischi per la salute e le performance associate al volo spaziale umano, crediamo che dato lo stato attuale delle conoscenze, le scadenze che l’agenzia si è data per la mitigazione del rischio siano ottimistiche, e che NASA non sarà in grado di sviluppare contromisure per alcuni dei rischi della navigazione nello spazio profondo prima della fine degli anni 30 del secolo, come minimo.

Di conseguenza, gli astronauti prescelti per le prime spedizioni nello spazio profondo dovranno accettare un livello di rischio più alto rispetto a quello di quelli che volano oggi sulla International Space Station. Abbiamo anche determinato che la NASA al momento non è in grado di rendicontare dettagliatamente i costi per lo sviluppo delle contromisure per tali rischi.

Il quadro normativo per la NASA

La NASA ha stabilito una sua policy autonoma per affrontare il rischio radioattivo, in obbedienza alle regole generali stabilite dall’OSHA (Occupational Safety and Health Administration – l’ente statunitense che detta le linee guida per la sicurezza sul lavoro). Come ente datore di lavoro l’agenzia spaziale americana ha infatti la responsabilità di tutelare la salute dei suoi impiegati.  Nel 1982 l’OSHA riconobbe ufficialmente gli astronauti come personale esposto a rischio professionale, assoggettandoli alle regole che proteggono i lavoratori dalle radiazioni ionizzanti. Secondo tali linee guida l’esposizione deve essere “mantenuta al livello minimo possibile”, una strategia chiamata ALARA (As Low As Reasonably Achievable):

Va fatto ogni sforzo ragionevole per mantenere l’esposizione a radiazioni ionizzanti al di sotto dei limiti prestabiliti, per quanto questo sia possibile in relazione allo scopo per cui una certa attività viene svolta e tenendo conto dei seguenti fattori: lo stato dell’arte delle tecnologie disponibili, il rapporto costo/benefici legato ad ulteriori miglioramenti alla tecnologia esistente, il rapporto costo/benefici in relazione al miglioramento della salute e sicurezza pubblica, altri fattori socio-economici.

Tuttavia i limiti fissati per i lavoratori “terrestri” si rivelarono essere troppo restrittivi, e l’OSHA approvò un’eccezione ufficiale (waiver) che consentì alla NASA di stabilire in via autonoma i valori per i suoi lavoratori. L’autorità ultima in termini di salute dei lavoratori di NASA è dunque un organo interno, l’Office of the Chief Health and Medical Officer (CHMO). Al fine di formulare le sue policy tale ufficio ha armonizzato le regole base dell’OSHA con il i risultati delle ricerche e delle valutazioni di varie agenzie scientifiche nazionali americane, come la National Academy of Sciences, e il National Council on Radiation Protection.

I limiti di esposizione secondo le regole NASA

Al momento attuale la NASA ha fissato un limite massimo di carriera per l’esposizione a radiazioni ionizzanti pari ad un aumento del rischio di morte del 3% (REID – Risk of Exposure-Induced Death). Tuttavia è complicato, partendo da questo dato generico, stabilire linee guida precise: la determinazione dei fattori che contribuiscono al raggiungimento di un rischio REID del 3% dipende dall’età e dal sesso degli astronauti. Per esempio, un soggetto di sesso maschile di 35 anni raggiunge la soglia del 3% REID con un’esposizione totale di 720 mSv, mentre un soggetto di sesso femminile della stessa età con soli 550 mSv. Il REID non è inoltre il solo fattore considerato da NASA: vi sono infatti danni non cancerogeni (ad es. al sistema nervoso centrale) che impongono un limite all’esposizione massima annua pari a 100 mSv (equivalenti a 50 TAC).

Basta dare un’occhiata alla tabella presentata nel paragrafo precedente per accorgersi che la dose annua di 100 mSv/anno viene assorbita dagli astronauti sulla ISS, nel caso peggiore, in meno di 6 mesi. Come spiegato, in anni di massimo solare l’esposizione semestrale è in media di 80 mSv, che salgono a 160 mSv in anni di minimo. Questo, peraltro, è la limitazione principale per quanto concerne la durata di una missione a bordo della ISS.

Se si passa a considerare l’esposizione alle radiazioni ionizzanti subita dagli astronauti nel corso di un viaggio verso Marte attorno al 2030, sorgono ulteriori problemi. In questo scenario di missione alcuni studi stimano un’esposizione totale pari a 1000 mSv, con un aumento del REID al 4,2% per un uomo di 40 anni e al 5,1% per una donna della stessa età. Questo significa che, mantenendo gli attuali limiti di esposizione, la capacità degli astronauti di trascorrere un lungo periodo nello spazio è limitato non solo a bordo della ISS ma anche durante qualunque viaggio fuori dalla sfera protettiva del campo magnetico terrestre.

Come si regola allora la NASA per le sue missioni? Si può dire che l’ente spaziale americano adotti un approccio pragmatico, applicando la filosofia ALARA nel senso più estensivo. Alla voce “limite massimo di carriera” di NASA non esiste dunque un numero fisso uguale per tutti gli astronauti, ma una cifra che varia con l’età e il sesso di ciascuno di essi. Un astronauta ultracinquantenne ha inoltre “solo” 20-30 anni di vita davanti a sé per sviluppare possibili neoplasie maligne, mentre la stessa dose di radiazioni subita da un(a) trentenne ha certamente maggior tempo per esprimere eventuali effetti patologici.

Come accennavamo, NASA è anche consapevole che i rischi alla salute degli astronauti non si limitano ai danni da radiazioni, e l’agenzia produce regolarmente edizioni aggiornate del documento “Evidence Reports on Human Health  Risks” con il quale si dettaglia lo stato dell’arte in merito alle scoperte nel campo medico, e si delineano i rischi emergenti e le relative soluzioni. Il rapporto viene poi valutato da un ente terzo, la National Academy of Science, la quale oltre ad offrire un punto di vista indipendente emette una serie di raccomandazioni per migliorare la qualità delle ricerche di NASA e dell’armonizzazione delle osservazioni raccolte.

Sia NASA che la National Academy of Science riconoscono che le missioni nello spazio profondo hanno una forte componente di rischio legato alle radiazioni che sarà di difficile gestione per anni, forse per sempre.

Le ricerche mediche in corso sulla ISS stanno indagando vari fenomeni degenerativi legati all’ambiente cosmico che vengono esacerbati dalle radiazioni ionizzanti: disturbi della circolazione, insorgenza della cataratta, invecchiamento precoce, problemi al sistema endocrino, disturbi del sistema nervoso centrale, deficit cognitivi, percezione spaziale, coordinamento occhi-mano, aumento dell’infertilità, alterazioni genetiche che gli astronauti potrebbero passare alla progenie una volta tornati sulla Terra. Per molti di questi problemi medici ad oggi non sono ben chiare le cause scatenanti, e visto che la ricerca è di fatto limitata all’orbita bassa terrestre, non sono disponibili dati basati su missioni abitate nello spazio profondo (fatta eccezione per quelli raccolti con le missioni Apollo). Altri studi si basano su sperimentazioni animali, che vanno correttamente relazionate alla fisiologia umana.

La ricerca di una soluzione

La NASA da anni sta lavorando sodo alla soluzione dei problemi dell’esplorazione umana dello spazio profondo. L’agenzia sta portando avanti due strategie parallele: la sperimentazione medica e l’innovazione tecnologica. La piattaforma della Stazione Spaziale Internazionale offre alla NASA e a tutti i partner internazionali che lavorano al progetto opportunità uniche per condurre ricerche sulla fisiologia umana e sulle tecnologie spaziali. Dal 1998 l’umanità può infatti contare sulla presenza in orbita di un vero e proprio laboratorio che consente, rispetto ai programmi russi e americani precedenti, di avere astronauti ed esperimenti nello spazio per periodi di tempo prima impensabili, anche se i russi hanno iniziato con anni di anticipo grazie alla stazione Mir (ed alle permanenze record – ancorché non sempre preventivate – di alcuni cosmonauti).

Lo studio sui gemelli Kelly

Nel 2012 la NASA ha colto l’opportunità di svolgere uno degli studi medici più importanti della sua storia, annunciando che l’astronauta Scott Kelly e il collega russo Mikhail Kornienko erano stati assegnati ad una missione della durata record di 12 mesi a bordo della Stazione Spaziale Internazionale, la “One Year Mission” (ne abbiamo parlato qui). Scott Kelly, inoltre, sarebbe stato allo stesso tempo protagonista dell’esperimento di ricerca medica “Twins Study“, che avrebbe coinvolto anche il fratello gemello Mark (rimasto a terra).

Mark e Scott Kelly – (C) NASA

“Twin Study” avrebbe permesso di studiare come le funzioni del corpo e del cervello dei gemelli Kelly sarebbero cambiate mentre l’uno viveva la sua vita da “pensionato” a Tucson, e l’altro volava nello spazio. Gli scienziati avrebbero inoltre approfondito le reazioni di Scott all’esposizione prolungata ad alcuni specifici fattori di stress, come lo stress del lancio, la vita in ambienti claustrofobici, i molteplici effetti all’assenza di peso, la qualità del cibo, la nostalgia di casa, i disturbi del sonno, tutto quanto insomma potesse influire sui cicli biologici dell’astronauta. Uno degli obiettivi di questo esperimento prolungato era proprio quello di stabilire, ove possibile, un legame tra una certa situazione di stress e la sua causa scatenante, e certamente uno dei più eclatanti tra questi sarebbe stata l’esposizione di Scott Kelly alle radiazioni ionizzanti.

One Year Mission e Twin Study sono stati un successo, i dati raccolti innumerevoli, e la loro analisi e armonizzazione in un modello descrittivo coerente è ancora in corso. A gennaio 2017 è stato rilasciato un comunicato con i risultati preliminari, mentre uno studio più completo sarà diffuso alla fine del 2017 e sarà seguito dalla pubblicazione dei paper scientifici più completi nel 2018.

L’occasione offerta da queste due missioni e dalla straordinaria coincidenza di poter usare due fratelli gemelli monozigoti come “cavia” è stata davvero formidabile. È probabile che i risultati diventeranno la pietra miliare per la comprensione dell’entità dei cambiamenti indotti dall’ambiente spaziale sul corpo umano, e guideranno lo sviluppo di soluzioni attive, passive e medicali in grado di sostenere le missioni spaziali in generale e nello spazio profondo in particolare.

Soluzioni ingegneristiche

Riprendendo la discussione su un’ipotetica missione marziana, vi sono alcune possibili soluzioni ingegneristiche per ridurre il rischio alla salute degli astronauti:

Razzi veloci consentiranno, ovviamente, di tagliare i tempi di transito tra la Terra e la destinazione da raggiungere, e con partenze opportunamente pianificate sarà possibile viaggiare quando le condizioni del “meteo” spaziale sono migliori per proteggere la salute degli astronauti.

Nessuna di queste tre direttrici ha un aspetto concreto in questo momento, anche se nuove ricerche ed esperimenti vengono compiuti di continuo sulla Stazione Spaziale Internazionale. Ricevendo “luce verde” oggi, sarebbe certamente possibile produrre hardware di qualità e in qualche modo ripetere lo “stunt” delle missioni Apollo, ma resterebbero validi tutti i limiti degli ultimi anni. I tempi di percorrenza per la rotta Terra/Marte, per esempio, restano come minimo semestrali, mentre le schermature anti radiazioni (anche quelle a bordo della nuovissima capsula Orion) non sono sufficienti ad abbassare sensibilmente il rischio per la salute degli astronauti nello spazio profondo.

La capsula Orion, l’ultimo veicolo di casa NASA per le missioni con equipaggio, è la candidata principale per trasportare gli astronauti nello spazio profondo. Il veicolo è dotato di una schermatura standard con materiali ad alto contenuto di idrogeno, ma la strategia “attiva” che gli astronauti dovranno adottare in caso di brillamento solare o di livelli elevati di particelle cosmiche durante una missione (segnalato da un apposito strumento) sarà di fatto di spostarsi nella parte inferiore della capsula e arrangiare una barriera fisica, una sorta di “rifugio” creato con le borse contenenti acqua e consumabili. Questo è, al momento, il meglio disponibile.

Va comunque tenuto presente che il tempo gioca a favore delle agenzie spaziali: NASA infatti non pianifica di iniziare una campagna di viaggi nello spazio profondo prima del 2030, e questo dà alla comunità scientifica almeno altri 10 anni per proseguire con la ricerca di base e con il testing delle tecnologie oggi allo stato embrionale.

Il ruolo dei privati e dei turisti spaziali

Nei paragrafi precedenti abbiamo discusso di come le agenzie spaziali debbano obbedire, per tutelare la salute dei propri lavoratori, a specifiche normative sulla sicurezza sul lavoro. Ma quando si pensa che SpaceX o Blue Origin, le due maggiori aziende private del “new Space” emergenti, potrebbero inviare nello spazio clienti paganti (e quindi non dipendenti) le cose si fanno interessanti.

Se Elon Musk volesse inviare una navetta totalmente automatica e carica di clienti verso l’orbita lunare, ad esempio, al momento potrebbe farlo senza troppe noie. Con la normativa vigente basterebbe che i clienti venissero informati con chiarezza dei rischi delle radiazioni ionizzanti e delle altre incognite del volo (per esempio, il fatto di trovarsi seduti sopra a centinaia di tonnellate di materiale esplosivo!) per essere “in regola”, senza nessuna ulteriore incombenza legale.

Per la legislazione statunitense infatti il ministero dei Trasporti e la FAA non possono promulgare in anticipo norme atte a proteggere la salute dei passeggeri da pericoli generici. In pratica questi enti possono solo reagire a posteriori rispetto ad una situazione negativa per i trasportati in modo che non capiti più in futuro, e comunque solo in risposta a qualcosa che accade durante il volo.

Il ruolo dell’OIG

L’ufficio OIG, nello svolgimento delle sue funzioni di controllo finanziario della NASA, esamina accuratamente lo stato di avanzamento dei programmi NASA e ne offre una visione terza. Il risultato di queste investigazioni è la pubblicazione di dettagliati report che, oltre a fotografare lo stato dell’arte, offrono suggerimenti e raccomandazioni alla NASA per migliorare l’implementazione dei programmi stessi. Ecco in questi due video la presentazione di due rapporti utilizzati nella redazione di questo articolo.

Ma allora siamo pronti?

In apertura di questo articolo ci chiedevamo: se avessimo oggi le condizioni per dare il via al programma spaziale sognato da tanti, se avessimo un accordo tra le agenzie spaziali e un sufficiente stanziamento di denaro, saremmo pronti ad affrontare la sfida di abbandonare l’orbita bassa terrestre?

La risposta che sembra emergere dall’esame delle fonti disponibili è controversa. Tecnologicamente sì, saremmo pronti a partire entro pochi anni, ma non senza esporre gli astronauti a gravi rischi per la loro salute. In mancanza di scoperte rivoluzionarie nel prossimo futuro è probabile che per lasciare le vicinanze della Terra le agenzie spaziali e i privati saranno costretti ad accettare rischi per gli equipaggi di un ordine di grandezza maggiore di quelli attuali.

Le agenzie spaziali potrebbero trovarsi, paradossalmente, ad essere particolarmente conservatrici: è praticamente certo che anche posti di fronte ai rischi, vi siano sempre astronauti o facoltosi turisti pronti a partire a qualsiasi condizione, assecondando l’innato spirito umano di avventura. Ma anche ignorando gli aspetti etici e normativi, enti spaziali e aziende che organizzassero missioni nello spazio profondo non potranno sottovalutare l’impatto sull’opinione pubblica di eventuali problemi di salute manifestati da personaggi pubblici come gli astronauti o i primi “turisti” lunari, specie se associabili alle conseguenze dei viaggi compiuti oltre la barriera protettiva della magnetosfera terrestre.

Fonti e bibliografia

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