Parziale successo per il primo volo dell’Electron di Rocket Lab
Rocket Lab, una giovane società aerospaziale californiana che opera in Nuova Zelanda, ha iniziato la sperimentazione di Electron, il suo nuovo lanciatore leggero, ottenendo un parziale successo. Lo scorso 25 maggio il razzo ha raggiunto lo spazio, ben oltre la Kármán line, senza però riuscire a mettere in orbita – per ragioni che sono ancora da accertare – il payload inerte che trasportava.
It’s a test
Il lanciatore, significativamente battezzato “It’s a test”, era giunto nel febbraio scorso in Nuova Zelanda, presso lo spazioporto privato che l’azienda ha creato nella penisola di Mahia.
Il liftoff, regolarmente autorizzato dalla Federal Aviation Administration, dal momento che Rocket Lab è basata negli Stati Uniti, era stato programmato per un’amplissima finestra di 10 giorni, tra il 22 maggio e il 5 giugno. Rocket Lab aveva spiegato ai media e ai curiosi che avrebbero gradito seguire l’evento in diretta, che per il volo di prova avrebbero atteso le condizioni ottimali e che pertanto sarebbero stati molto probabili i rinvii nel corso della giornata o gli scrub al giorno successivo. Ciò si è puntualmente verificato: il meteo non si presentava particolarmente favorevole, nell’autunno avanzato dell’emisfero meridionale, e prima i venti, poi le nuvole, che potevano generare cariche elettrostatiche potenzialmente dannose per il razzo, hanno tenuto a terra l’Electron per tre giorni interi.
Weather constraints will reduce in commercial phase. Focus now is testing rocket systems, rather than ability to deal with adverse weather.
— Rocket Lab (@RocketLab) May 24, 2017
Il quarto giorno la sequenza di sette ore prevista per il liftoff si è potuta svolgere per intero. A T-2 si sono accesi i 9 motori del primo stadio che, raggiunta la piena potenza, hanno sollevato l’Electron dalla piattaforma di lancio alle 16.20, ora locale, di mercoledì (in Italia erano le 6.20 del mattino). Il razzo si è innalzato rapidamente come previsto, inclinandosi verso l’Oceano in direzione Sud (l’azimut del lancio era di 174°).
Gli eventi successivi si sono svolti in modo nominale: il primo stadio ha fornito la propria spinta per 2 minuti e mezzo; è seguita, dopo pochi secondi, la separazione e l’accensione del secondo stadio. A T+3,07 è avvenuto il distacco del fairing.
A quel punto i tweet entusiasti di Rocket Lab hanno creato l’illusione che l’intera missione fosse stata portata a termine (come si è detto, non c’erano immagini in diretta e i messaggi social erano l’unica fonte per capire che cosa stesse accadendo).
Made it to space. Team delighted. More to follow! #ItsaTest
— Rocket Lab (@RocketLab) May 25, 2017
Ben presto però, un comunicato stampa e le successive dichiarazioni rilasciate ai media da Peter Beck, CEO e fondatore dell’azienda californiana, hanno chiarito cosa realmente significasse “raggiunto lo spazio” e restituito le esatte dimensioni di quello che resta comunque un ottimo risultato per un primo tentativo.
“È stato un grande volo – ha detto con enfasi Beck –. Hanno funzionato perfettamente i motori del primo stadio, la separazione del primo stadio, l’accensione del secondo stadio e la separazione del fairing. Non siamo riusciti a entrare in orbita, e stiamo cercando di capire perché, anche se l’aver raggiunto lo spazio nel nostro primo test ci mette in una posizione incredibilmente solida per accelerare la fase commerciale del programma, portare i nostri clienti in orbita e aprire lo spazio alle imprese.”
Nessuna ipotesi è finora uscita da Rocket Lab sulle ragioni del fallimento dell’ultimo obiettivo. L’Electron era diretto verso un’orbita ellittica di 300×500 km ed un’inclinazione di 83°. Il fatto che, stando alle parole del CEO ai media, si sia innalzato solo fino un apogeo di poco più di 250 km, unito all’elenco sopra riportato di ciò che ha funzionato, farebbe pensare ad uno spegnimento anticipato (o ad altra avaria) del motore del secondo stadio.
“Abbiamo imparato moltissimo da questo lancio di test – ha continuato il CEO – e molto impareremo nelle prossime settimane.” Gli ingegneri di Rocket Lab, un team di 45 persone tra Auckland e Los Angeles, dovranno infatti esaminare i dati raccolti da 25.000 canali di telemetria durante il volo. Da questo lavoro, oltre alle cause del problema, emergeranno moltissime informazioni su come ottimizzare il razzo in vista degli altri due test previsti entro la fine del 2017.
Nel frattempo è giusto dare uno sguardo al passato ed esprimere soddisfazione per il lavoro compiuto:
“Sono immensamente orgoglioso del talento della nostra squadra – ha dichiarato Beck –. Siamo una delle poche aziende che abbiano sviluppato un razzo da zero e lo abbiamo fatto in meno di quattro anni. Abbiamo lavorato instancabilmente per arrivare a questo punto. Abbiamo sviluppato tutto in casa, abbiamo costruito il primo spazioporto privato per lanci orbitali al mondo, e abbiamo fatto tutto con un piccolo team.”
Il primo razzo a batterie e il suo futuro
Ma che come è fatto questo nuovo lanciatore leggero e che cosa si propone Rocket Lab con il suo sviluppo?
Electron è un bistadio che misura 17 metri in altezza, 1,2 in diametro e pesa 12,55 tonnellate. È progettato per portare un payload di 150 kg in orbita eliosincrona, ad un’altezza di 500 km. Entrambi gli stadi utilizzano i medesimi propellenti, cherosene RP-1 e ossigeno liquido, e gli stessi motori, interamente sviluppati dall’azienda e intitolati al fisico neozelandese Ernest Rutherford, nove nel primo stadio ed uno nel secondo.
I propulsori Rutherford, i cui test di qualifica sono stati ultimati nel 2016, pesano solo 20 kg e sono in grado di fornire una spinta 18 kN a livello del mare, che salgono a 21kN nel vuoto, con un impulso specifico di 303 secondi. Tra le loro peculiarità c’è l’essere realizzati per la maggior parte dei loro componenti in stampa 3D e l’essere privi delle classiche turbopompe. Ad assicurare l’afflusso all’idonea pressione di ossigeno e cherosene nella camera di combustione, sono due pompe elettriche ad alte prestazioni. Se ne guadagna una riduzione della massa dei motori e una semplificazione della loro struttura, per quanto la controparte sia la necessità di portare a bordo il peso della batterie. Per alimentare le pompe del primo stadio, che opera per due minuti e mezzo, occorrono ben 13 set di batterie in grado di generare più di un 1 megawatt.
Rocket Lab esiste dal 2006 e per vari anni ha prodotto sounding rocket (uno di questi, Atea-1, nel 2009 è stato il primo razzo “privato” a raggiungere lo spazio dall’emisfero meridionale). Il progetto del razzo orbitale Electron, sostenuto da capitali provenienti da Silicon Valley e dalla stessa Lockheed Martin, è stato avviato nel 2014, avendo come obiettivo le esigenze di una fascia di mercato in ampia crescita: quella dei piccoli satelliti e dei cubesat.
Attualmente questi oggetti possono raggiungere lo spazio quasi esclusivamente come “payload secondari”, unitamente ai grandi satelliti commerciali, ma ciò, oltre a costi ancora elevati, comporta forti limitazioni: i proprietari dei piccoli satelliti si devono adattare alle esigenze dei payload principali rispetto alle orbite di destinazione, alle tempistiche, ecc. Sono relativamente pochi, ad esempio, i lanci commerciali diretti verso orbite polari: non a caso i lanci dell’indiano PSLV sono quasi sempre affollati di micro e nanosatelliti.
Si è pertanto creato uno spazio per lanciatori leggeri come l’Electron, che possono offrire un servizio dedicato e flessibile a chi vuole mettere in orbita piccoli payload. Altri produttori si stanno proponendo in questo settore, come Virgin Orbit con il LauncherOne, che dovrebbe essere testato entro la fine dell’anno, o Vector Space System, che solo poche settimane fa, nel Deserto del Mojave, ha svolto il suo primo test, ampiamente suborbitale, di Vector-R.
Rocket Lab sta già offrendo il suo Electron al prezzo, forse non ancora bassissimo, di 4.900.000 dollari al volo, che potrebbe diminuire, con l’intensificarsi del numero di lanci. L’azienda californiana punta a raggiungere, al pieno delle proprie possibilità produttive, la capacità teorica di un lancio ogni 72 ore, dal proprio spazioporto in Nuova Zelanda (ma sono già stati conclusi accordi per l’utilizzo del Kennedy Space Center e del Pacific Spaceport Complex in Alaska) e di realizzare fino a 50 voli all’anno.
In un’intervista di alcune settimane fa, Peter Beck ha osservato che la realizzazione dei motori con la stampa 3D ha un ruolo importante in questo sviluppo:
“Adesso, con sei stampanti, possiamo produrre un motore ogni 24 ore, quindi se abbiamo bisogno di produrre più motori, dobbiamo solo acquistare più stampanti. Ci siamo messi in una situazione molto scalabile, e adesso dobbiamo solo metterla in pratica”.
Rocket Lab dispone già di un portafoglio di clienti per l’Electron. Il più noto è certamente Moon Express, che ha firmato un contratto per il lancio di tre microlander sulla Luna, nell’ambito del Google Lunar X Prize. Il primo volo dovrebbe realizzarsi entro il 2017 per consentire all’azienda americana di vincere il premio. È un traguardo abbastanza impegnativo, visto che si tratta ancora di raggiungere l’orbita, ma ancora possibile.
In essere dal 2015 è anche un contratto con la NASA, nell’ambito del Venture Class Launch Services program, per la collocazione in LEO di alcuni piccoli satelliti scientifici. Nel 2016 hanno prenotato lanci due aziende californiane: Planet, che sta costituendo una flotta di cubesat per la ripresa di immagini della terra, e Spire Global, che offre servizi di previsioni meteorologiche e di tracking marittimo. È notizia di pochi giorni fa, l’acquisto di un volo Electron da parte di Spaceflight, azienda statunitense con base a Seattle che gestisce il lancio di piccoli satelliti per conto di clienti governativi, accademici o commerciali.
Il primo spazioporto orbitale privato
Il volo inaugurale dell’Electron è stato anche il primo a partire dal nuovo spazioporto che Rocket Lab ha ultimato tra 2015 e 2016, in Nuova Zelanda, in una piccola penisola nel Nord-Est dell’isola settentrionale, Mahia, che si protende isolata nel mare, in uno scenario di particolare bellezza dal punto di vista paesaggistico.
La Nuova Zelanda non è una collocazione ideale per raggiungere le orbite di bassa inclinazione rispetto all’equatore (e, tra l’altro, dalla penisola di Mahia non lo si può fare senza sorvolare zone abitate), ma il piccolo spazioporto, denominato Launch Complex 1, è adatto per i lanci in orbita polare eliosincrona, che è quella più ricercata per i piccoli satelliti destinati all’osservazione della terra.
Il Launch Complex 1 di Mahia è primo spazioporto privato destinato a lanci orbitali mai realizzato. Un’impresa senz’altro impegnativa, di cui Peter Beck si è detto particolarmente orgoglioso. Infatti, per quanto l’Electron abbia dimensioni ridotte e non richieda le ciclopiche strutture di supporto dei grandi lanciatori, Rocket Lab ha dovuto comunque realizzare ex novo praticamente tutto, dalle strade di accesso alle stazioni di tracking, collocate in sperdute isole del Pacifico.
In attesa delle spettacolari immagini che potremo goderci quando, ultimata la fase di sviluppo, sarà possibile seguire le attività di Rocket Lab dallo spazioporto neozelandese in diretta streaming, vale la pena, per conoscere meglio lo spirito dei protagonisti di questa nuova azienda, dedicare un paio di minuti al video nel quale hanno voluto riassumere la giornata del 25 maggio, in cui – a loro dire – hanno fatto la storia.
Fonte: Rocket Lab
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Veramente bravi i ragazzi di Rocket Lab per quanto fatto finora; non li conoscevo prima ma mi sono informato e devo dire che stanno portando avanti un bel progetto, non credo a livello di SpaceX ma va bene uguale: chiunque investa e cerchi di innovare nel settore spaziale merita tutto il supporto possibile!
Un in bocca al lupo per il futuro