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SpaceX: lanciata la missione Dragon CRS-8

Alle 16:43:32 ora locale (le 20:43:32 GMT e le 22:43:32 in Italia) di oggi 8 aprile 2016 il razzo Falcon 9 dell’azienda privata SpaceX è decollato dal complesso di lancio numero 40 (SLC-40) di Cape Canaveral, in Florida, portando in orbita il veicolo cargo Dragon CRS-8 destinato alla ISS (International Space Station). Per il Dragon si è trattato di una sorta di ritorno al volo dopo che il precedente CRS-7 era andato distrutto nel giugno dello scorso anno a causa del fallimento del suo vettore Falcon 9 poco dopo il lancio. Il ritorno al volo per il Falcon 9 è avvenuto sei mesi dopo (nel dicembre 2015) portando in orbita alcuni satelliti commerciali. Altri due lanci sono stati effettuati quest’anno (in gennaio e in marzo) ripristinando la fiducia nell’affidabilità di questo razzo.

Il decollo del Falcon 9.

Malgrado Dragon non abbia avuto alcun ruolo nell’incidente dello scorso anno, da allora non aveva più volato e quindi quello di oggi è stato l’inizio di una nuova “vita” per la capsula di SpaceX. Dopo il lancio di CRS-3 infatti i lanci delle Dragon si erano fatti sempre più ravvicinati (come mostrato nel grafico sottostante) fino allo stop improvviso di CRS-7 e la pausa forzata dovuta alla necessità di riportare in sicurezza il Falcon 9. Le due pause più prolungate fra i lanci CRS (Commercial Resupply Service), i 413 giorni fra CRS-2 e CRS-3 ed ora i 285 giorni fra CRS-7 e CRS-8, hanno anche visto nel frattempo l’introduzione di altrettante versioni del lanciatore utilizzato per portare in orbita la capsula. CRS-3 fu infatti il primo Dragon sollevato dal Falcon 9 nella versione 1.1 che introduceva una serie di modifiche atte ad aumentarne le prestazioni del 60% rispetto al modello precedente. Ora CRS-8 è il primo Dragon ad essere portato in orbita dal Falcon nella versione FT (Full Thrust), con prestazioni ulteriormente aumentate del 30%.

Grafico che mostra i giorni che hanno separato i vari lanci della capsula Dragon verso la ISS.

Per portare in orbita la capsula Dragon basterebbe anche un razzo meno potente perciò il surplus di energia viene utilizzato per riportare a Terra il primo stadio una volta che questo ha esaurito il suo compito di imprimere al secondo stadio la spinta necessaria affinché possa proseguire la salita verso l’orbita con il suo singolo motore. Il primo stadio invece, una volta separatosi dal secondo, inverte la rotta tramite la riaccensione di tre dei suoi nove motori. Una seconda accensione dei tre motori avviene prima del rientro negli strati più densi dell’atmosfera per rallentare la velocità e diminuire il surriscaldamento. Infine, quando il razzo è ormai prossimo alla zona di atterraggio, viene acceso il motore centrale per farlo posare dolcemente sorretto da quattro gambe che si aprono pochi istanti prima dell’atterraggio stesso.

Il lancio odierno ha visto il primo stadio del Falcon 9 atterrare finalmente con successo su una chiatta denominata ASDS (Autonomous Space Drone Ship) posizionata per l’occasione nell’Oceano Atlantico a circa 340 chilometri dalla costa della Florida. Tutti i precedenti tentativi di recupero del primo stadio tramite ASDS erano miseramente falliti, con la conseguente distruzione dello stadio. Il primo fu eseguito nel gennaio 2015 in occasione del volo Dragon CRS-5 e la causa dell’insuccesso fu ricondotta all’esaurimento prima del previsto del fluido in pressione che comanda il movimento delle alette poste nella parte superiore dello stadio e che hanno la funzione di controllarne in maniera precisa la discesa. Un secondo tentativo venne effettuato nell’aprile 2015 (Dragon CRS-6) ma una valvola del sistema di direzionamento dello stadio non reagì nei tempi previsti causando un assetto non ottimale. Il terzo tentativo venne eseguito lo scorso gennaio nell’Oceano Pacifico in quanto il razzo (che portava a bordo il satellite Jason-3) partì dalla base californiana di Vandenberg. In quel caso lo stadio atterrò senza problemi ma una delle sue quattro gambe non si bloccò nella posizione finale provocandone la caduta. Infine il mese scorso lo stadio che sollevò il satellite SES-9 tentò un atterraggio ad alto rischio in quanto la riserva di carburante (utilizzato quasi tutto per portare su un’orbita molto alta il pesante satellite) non avrebbe permesso il solito dietro-front ma solo un atterraggio con traiettoria balistica e ad altissima velocità tanto che per l’ultima frenata in prossimità della chiatta sarebbero stati necessari tre motori anziché il solito motore singolo. Purtroppo uno dei tre motori non ha fornito le prestazioni necessarie impedendo quindi allo stadio di rallentare in maniera sufficiente.

Questa volta però tutto ha funzionato alla perfezione ed ora la chiatta tornerà in porto con il suo prezioso carico intatto.


Il recupero dei primi stadi permetterà in futuro il loro riutilizzo per altri lanci evitando quindi di doverli ricostruire da zero. SpaceX punta molto sulla riutilizzabilità dei suoi razzi e quindi questo successo, unito al recupero del primo stadio effettuato il 22 dicembre scorso quando l’atterraggio avvenne addirittura sulla terraferma, a circa 9 km di distanza dal punto in cui il razzo era partito, è un passo assolutamente fondamentale in questo senso. Anche in questa occasione il primo stadio avrebbe avuto carburante sufficiente per ritornare sulla terraferma, ma SpaceX ha preferito comunque l’atterraggio su chiatta in quanto ha bisogno di accumulare esperienza, anche nelle operazioni post atterraggio, visto che in futuro una buona percentuale dei primi stadi verranno necessariamente recuperati in questo modo.

Il successo odierno di SpaceX in un’unica immagine (dal live webcast). Il primo stadio al sicuro sulla chiatta e contemporaneamente la capsula Dragon appena rilasciata in orbita.

La navicella cargo Dragon è ora in rotta verso la Stazione Spaziale Internazionale che raggiungerà verso le ore 11 GMT (le 13 in Italia) di domenica 10 aprile quando, arrivata a una decina di metri dal grande complesso orbitale, verrà agganciata dal braccio robotico della ISS manovrato dall’astronauta britannico Timothy Peake assistito dall’americano Jeffrey Williams. Circa tre ore dopo (alle 16 ora italiana) i controllori a Terra attraccheranno la capsula al boccaporto inferiore del modulo Harmony (Nodo 2). A quel punto ben sei veicoli (un numero così elevato si era verificato solamente nel febbraio 2011) saranno contemporaneamente agganciati alla Stazione essendoci già due Sojuz (la TMA-19M arrivata il 15 dicembre 2015 e la TMA-20M arrivata il 19 marzo scorso), due Progress (MS-01 il 23 dicembre e MS-02 il 2 aprile) e la Cygnus CRS-6 (il 26 marzo). Si tratterà invece della prima volta in assoluto che i due veicoli adibiti al trasporto di materiali all’interno del contratto CRS (Cygnus e Dragon) saranno contemporaneamente presenti sulla ISS.

La grande attesa per questo lancio non era dovuta solo al ritorno al volo della capsula Dragon ma anche a quello che la navicella americana porta con sé. Fra i 3.136 kg di materiali presenti a bordo, il suo carico principale (ospitato nella sezione posteriore non pressurizzata ed adibita al trasporto di carichi tipicamente destinati a rimanere all’esterno della Stazione) è infatti costituito da un nuovo modulo abitativo per la ISS, denominato BEAM (Bigelow Expandable Activity Module), realizzato dall’azienda privata Bigelow Aerospace tramite un contratto siglato con la NASA nel gennaio 2013 e valutato 17,8 milioni di dollari, pari al 70% circa del costo totale di BEAM. Questa azienda, la cui sede si trova a Las Vegas, ha già visto lanciare nello spazio due moduli simili a BEAM seppure non abilitati ad ospitare equipaggi. Si tratta dei due prototipi Genesis I e Genesis II lanciati rispettivamente nel luglio 2006 e nel giugno 2007 e tutt’ora in orbita attorno alla Terra. Rispetto a questi ultimi, BEAM rappresenta un deciso passo in avanti in quanto non solo verrà agganciato alla ISS ma vedrà anche degli astronauti al suo interno.

BEAM, ormai completato e pronto per essere consegnato alla NASA, fotografato nel marzo 2015 presso lo stabilimento della Bigelow Aerospace a Las Vegas. Credit: NASA/Stephanie Schierholz

Erano più di cinque anni che la Stazione Spaziale Internazionale non vedeva l’arrivo di un nuovo modulo pressurizzato. L’ultimo fu, il 1 marzo 2011, il modulo Leonardo che dopo essere stato utilizzato per nove anni (dal 2001 al 2010) in qualità di MPLM (Multi Purpose Logistic Module) per portare su e giù dalla ISS materiali, esperimenti e rifornimenti grazie al suo inserimento nella capiente stiva delle navette spaziali della NASA, è stato modificato per rimanere permanentemente (da cui la sua nuova denominazione PMM – Permanent Multipurpose Module) agganciato alla Stazione.

Il 16 aprile verso le 8:15 ora italiana BEAM verrà estratto dal suo alloggiamento, tramite l’utilizzo del braccio robotico manovrato dai controllori a Terra, e dopo circa quattro ore sarà agganciato ad uno dei boccaporti del modulo Tranquility (Nodo 3), proprio di fronte a Leonardo. Grazie a BEAM il volume abitabile a disposizione degli astronauti aumenterà quindi ulteriormente, anche se non è previsto un utilizzo operativo del nuovo modulo. Al contrario, gli astronauti vi entreranno solo saltuariamente in quanto la funzione di BEAM è quella di testare una nuova tecnologia di costruzione basata su strutture gonfiabili (o espandibili) anziché completamente rigide come tutti i moduli pressurizzati che compongono attualmente la ISS. In un giorno non ancora definito tra il 20 maggio e il 2 giugno, gli astronauti comanderanno infatti l’apertura di una valvola che permetterà all’aria presente all’interno della ISS di andare a gonfiare BEAM passando attraverso il suo portello. Una prima fase di gonfiaggio vedrà appunto l’aria della ISS entrare all’interno di BEAM fino a creare una leggera pressione. Dopodiché otto serbatoi all’interno di BEAM stesso rilasceranno dell’ulteriore aria fino ad arrivare alla stessa pressione della Stazione (1 atmosfera). Il processo di gonfiaggio durerà circa 45 minuti sebbene potranno esserci delle pause durante l’espansione la quale, a differenza dei due moduli Genesis, avverrà in senso assiale. Per questo motivo la Bigelow Aerospace preferisce indicarlo come modulo espandibile anziché gonfiabile, denominazione questa più calzante per i Genesis il cui volume (tra l’altro del 40% più piccolo) aumentò in senso radiale.

Animazione dell’installazione di BEAM

In linea di principio i moduli come BEAM presentano alcuni vantaggi rispetto a quelli tradizionali a struttura rigida. Innanzitutto, essendo gonfiati una volta in orbita, occupano molto meno spazio al momento del lancio e quindi possono essere imbarcati a bordo di razzi o navicelle più piccole. In questo caso, il volume abitabile di BEAM una volta gonfiato aumenterà di oltre 4 volte (da 3,6 a 16 m3). Oppure, a parità di dimensioni al lancio diventano molto più grandi una volta gonfiati. Anche il loro peso è inferiore, a parità di volume finale, rispetto ai moduli rigidi e quindi anche in questo caso c’è un notevole risparmio per quanto riguarda il lancio. Per fare un confronto, BEAM avrà un volume pressurizzato 4,4 volte più piccolo rispetto a Tranquility ma con un peso al lancio 9,7 volte inferiore (1,4 tonnellate contro 13,6 tonnellate). Ulteriori vantaggi sono rappresentati da una maggiore resistenza ad eventuali impatti con detriti o micrometeoriti ed una migliore schermatura contro le radiazioni cosmiche. Inoltre le sue pareti (la cui composizione e spessore dei vari strati non è stata divulgata dall’azienda costruttrice) dovrebbero anche assorbire meglio i rumori e quindi il suo interno risulterà più silenzioso rispetto agli altri moduli.

Spaccato che mostra l’interno di BEAM. Credit: Bigelow Aerospace, LLC

Ma prima di affidarsi a questa nuova tipologia di moduli, l’agenzia spaziale americana vuole assicurarsi che i vantaggi siano effettivamente reali e soprattutto che non ci siano controindicazioni impreviste. Per questo motivo BEAM verrà scrupolosamente monitorato e analizzato, a cominciare dalla sua integrità strutturale e dalla tenuta stagna, due requisiti fondamentali per potervi ospitare al suo interno degli astronauti. Verranno anche effettuate rilevazioni sul grado di schermatura dalle radiazioni e sulla capacità di isolazione termica. Come si diceva, gli astronauti vi entreranno solo saltuariamente (tre o quattro volte all’anno) e vi rimarranno per circa tre ore effettuando rilievi e misurazioni di pressione, temperatura, livelli di radiazione e quant’altro atto a verificarne la rispondenza ai requisiti di progetto, tramite una serie di sensori e strumentazioni, alcuni già presenti a bordo ed altri installati dagli astronauti stessi. Il primo ingresso avverrà circa una settimana dopo il completo gonfiaggio e solo dopo che sarà stata verificata l’assenza di perdite d’aria. Malgrado BEAM sia progettato per rimanere agganciato alla ISS per cinque anni, la sua permanenza sarà ridotta a soli due anni in quanto il portello al quale verrà agganciato dovrà essere liberato per permettere altre attività. Al termine della sua missione BEAM verrà sganciato e liberato nello spazio dove perderà lentamente quota fino a rientrare distruttivamente in atmosfera dopo circa 290 giorni.

Rappresentazione pittorica di BEAM agganciato a Tranquility. Credit: Bigelow Aerospace, LLC

Oltre a BEAM, Dragon porta con sé anche 16 CubeSats denominati Flock-2d e realizzati dall’azienda Planet Labs. Si tratta di mini satelliti (30 x 10 x 10 cm) dal peso di 5 kg ognuno che verranno portati all’interno della ISS e successivamente espulsi nello spazio tramite un apposito “dispenser” per iniziare la loro missione che consisterà nel riprendere immagini del nostro pianeta con una risoluzione compresa fra 3 e 5 metri. I primi satelliti di questo tipo realizzati da Planet Labs furono i Flock-1 portati sulla ISS nel gennaio 2014 a bordo del volo di rifornimento Cygnus CRS-1. In quell’occasione i satelliti furono addirittura 28 e i primi quattro di essi vennero rilasciati nello spazio il mese successivo. Da allora molti altri satelliti della serie Flock hanno trovato posto a bordo sia di Cygnus che di Dragon come pure in una occasione ciascuno a bordo del veicolo giapponese HTV-5 e di un razzo russo Dnepr. Fino ad oggi Planet Labs è riuscita a far lanciare oltre 200 di questi satelliti, compresi 34 che sono andati distrutti nei due incidenti di Cygnus CRS-3 (che ne aveva a bordo 26) e Dragon CRS-7 (che ne portava con sé 8).

Dragon CRS-8 ospita naturalmente anche svariati esperimenti che verranno effettuati sulla ISS, tra cui:

Rodent Research-3 – Si tratta della terza fase di una ricerca mirata alla comprensione dei meccanismi che provocano negli astronauti la perdita di massa muscolare ed ossea. La ricerca, dei cui risultati potranno beneficiare anche tutte le persone che sulla Terra soffrono di questi disturbi, verrà effettuata tramite l’analisi e la successiva dissezione di venti topolini.

CASIS PCG 4-2 – Studio sulla cristallizzazione di proteine in ambiente di microgravità allo scopo di comprendere meglio la loro struttura e permettere di sintetizzare dei farmaci migliori per la cura del cancro.

Microchannel Diffusion – Esperimento per la comprensione del comportamento dei fluidi confinati a scorrere in micro-canalizzazioni allo scopo di progredire nel campo delle nanotecnologie.

Microbial Observatory-1 – Studio che mira al censimento della flora microbica presente sulla ISS per capire come questa potrebbe recare danno alla salute degli equipaggi impegnati in missioni di lunga durata.

Veg-03 – Ulteriore fase dell’esperimento di coltivazione di vegetali a bordo della ISS. In particolare verrà testato un nuovo e più efficiente metodo di somministrazione di acqua e verrà cresciuta una nuova varietà di “ortaggio”, il cavolo Tokyo Bekana.

Micro-10 – Ricerca dedicata alla crescita di funghi in ambiente di microgravità allo scopo di produrre medicinali più efficaci.

Genes in Space-1 – Esperimento per testare una tecnica che potrebbe essere utilizzata per studiare le alterazioni del DNA a cui gli astronauti vanno soggetti durante la permanenza in orbita.

A bordo di Dragon ci sono anche 30 computer portatili HP ZBook 15 che andranno a sostituire i Lenovo attualmente presenti sulla ISS nell’ambito del programma di rinnovamento hardware che NASA effettua ogni sei anni.

Al termine della missione, mercoledì 11 maggio, Dragon ritornerà a Terra portando con sé tra le altre cose anche i preziosi campioni biologici raccolti da Scott Kelly durante la sua missione di un anno.

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