Intervista esclusiva all’astronauta Vance Brand
Siamo giunti al quinto appuntamento (di sette) dedicato ad altrettante interviste, raccolte tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010, di astronauti che hanno volato nel programma STS (Space Transportation System) della NASA.
Vance Devoe Brand è nato il 9 maggio 1931 a Longmont, in Colorado. Diplomatosi presso la locale scuola superiore nel 1949, ha conseguito la laurea in commercio all’Università del Colorado quattro anni dopo. Dal 1953 al 1957 ha prestato servizio nel corpo dei Marines come ufficiale pilota e tre anni dopo ha conseguito una laurea in ingegneria aeronautica presso la stessa Università del Colorado.
Nel 1960 è entrato alla Lockheed Aircraft Corporation come ingegnere collaudatore di volo sull’aereo P-3A Orion per la U.S. Navy e tre anni dopo ha ottenuto il brevetto di pilota collaudatore presso la U.S. Naval Test Pilot School di Patuxent River, nel Maryland.
Nel 1964 ha conseguito un master in amministrazione aziendale alla UCLA (University of California, Los Angeles) e nel 1966, mentre lavorava a Istres in Francia nello sviluppo dell’aereo F-104G Starfighter destinato alla Germania Ovest, è stato selezionato nel corpo astronauti della NASA.
Dei suoi 18 compagni di corso, tre (Mitchell, Irwin e Duke) hanno camminato sulla Luna nelle missioni Apollo 14, 15 e 16 mentre Brand ha svolto il ruolo di pilota di riserva del modulo di comando nella missione Apollo 15. Il suo battesimo spaziale è arrivato nel luglio 1975 come pilota del modulo di comando nella missione Apollo-Sojuz Test Project.
Nel novembre 1982 ha comandato la navetta Columbia nella missione denominata STS-5. Il terzo volo lo ha visto comandare la navetta Challenger nel febbraio 1984 per la missione STS 41-B. La sua quarta e ultima missione spaziale l’ha effettuata nel dicembre 1990 comandando la navetta Columbia nel volo denominato STS-35 (Astro 1). Nel 1992 ha lasciato lo status di volo per lavorare al progetto NASP (National Aerospace Plane) presso la Wright-Patterson Air Force Base a Dayton nell’ Ohio, ritirandosi formalmente dalla NASA solo nel 2008.
STS-5
In questa missione doveva compiersi la prima EVA del programma STS ma questa non venne effettuata. Quale fu il motivo?
La ragione per cui l’EVA non venne effettuata furono due problemi tecnici con le tute. Il primo riguardò una ventola di raffreddamento, mentre non ricordo l’esatta natura dell’altro problema sebbene fosse simile. Dal momento che si sarebbe trattato della prima EVA e quindi del primo utilizzo di quelle tute tutto avrebbe dovuto essere perfetto prima di avventurarci all’esterno.
Questa fu la prima missione nella quale l’equipaggio non indossava le tute pressurizzate. Ci furono altre misure di sicurezza adottate per le prime quattro missioni e poi rimosse per STS-5?
Ciò che cambiò fu che le missioni precedenti ebbero solo due membri di equipaggio mentre nella nostra eravamo in quattro. Oltre al numero dei componenti, la differenza maggiore fu che non potemmo utilizzare i seggiolini eiettabili in quanto in caso di utilizzo i due astronauti davanti avrebbero carbonizzato quelli seduti dietro. Per cui vennero rimosse dai sedili le cariche esplosive e quindi non c’era più modo di uscire nel caso qualcosa fosse andato storto. Durante il lancio o il rientro avremmo potuto provare a lanciarci col paracadute fuori dal portello anche se probabilmente non avrebbe funzionato.
Per la prima volta nella storia dei voli spaziali una navicella ha lasciato la rampa di lancio con quattro persone a bordo. In aggiunta, la vostra missione fu la prima del programma STS ad essere dichiarata operativa, portando in orbita due satelliti. Possiamo quindi affermare che Vance Brand ha aperto una nuova era nei voli spaziali. Quali erano a quel tempo le aspettative e le speranze per questo sistema di trasporto spaziale?
A quei tempi era convinzione del management NASA che lo Space Shuttle potesse essere definito operativo come qualsiasi altro aeroplano. Aveva terminato la fase di test e con questa missione era operativo. Io invece credo che ciò era solo parzialmente vero in quanto si trattava di una macchina talmente complessa che sarebbe rimasta per molto tempo un veicolo di ricerca. Però è vero, fummo dichiarati il primo equipaggio a volare su una missione operativa sebbene persino oggi lo Shuttle può essere considerato un veicolo di ricerca.
Dell’EVA abbiamo già parlato. Ci fu qualcos’altro che non andò come previsto?
No, tutto funzionò estremamente bene e l’EVA fu l’unica cosa per la quale ci furono dei problemi.
Eri sicuro che questa missione non sarebbe stata l’ultima per te, oppure fu una sorpresa il comando della STS 41-B?
Non fu una sorpresa. Volevo volare ancora e richiesi di rimanere nel programma STS e questa missione, a parte l’EVA, fu un volo perfetto. Quindi no, non fui sorpreso.
STS 41-B
Questa missione fu la prima nella quale venne cambiata la sequenza numerica. Non ci furono mai una STS-10 o STS-11 ma il numero cambiò in 41-B. Quale fu la ragione?
Credo che il direttore del Johnson Space Center (JSC) ed altri membri del management volevano che il numero fosse più descrittivo. Leggendo i numeri e le lettere si sarebbe capito di più sulla missione. Per esempio tutte le missioni che iniziavano con il numero 4 avevano il lancio previsto nel 1984. Non ricordo cosa significasse il numero 1, mentre la B significava che era la seconda missione del 1984. Mi ha fatto però piacere che successivamente queste numerazioni siano state abbandonate in quanto, malgrado fossero più descrittive, la maggior parte delle persone trovava più semplice ragionare in termini di numeri in successione.
In questa missione vennero rilasciati due satelliti ma questi non raggiunsero l’orbita prevista. Cosa puoi dirmi al riguardo?
Si, ci furono due guasti nei razzi che dovevano portare i satelliti su un’orbita più alta dopo essere stati sganciati dallo Shuttle. E furono apparentemente due guasti identici. Stavamo osservando la seconda accensione e abbiamo visto, sebbene in quel momento il satellite si trovasse a svariati km da noi, che dopo circa 10 secondi il motore si è spento. Più tardi si appurò che si era trattato di guasti generici, qualcosa di estremamente inusuale nel programma spaziale. Naturalmente eravamo molto dispiaciuti per ciò che era successo, ma sapevamo che non era dipeso da noi ma piuttosto da qualche problema occorso in fase di progettazione o costruzione dei due satelliti.
Questa missione verrà ricordata in eterno per la prima EVA senza collegamenti con il veicolo effettuata da McCandless e Stewart grazie alla MMU (Manned Maneuvering Unit). Bruce McCandless uscì dalla stiva di carico e si allontanò per un centinaio di metri. Qual era la procedura in caso di guasto alla MMU e quindi con gli astronauti incapaci di ritornare nella stiva?
Nessuno si aspettava un guasto alle MMU in quanto erano state progettate con sistemi ridondanti, ma nella remota eventualità di un guasto eravamo addestrati nel portare la navetta vicino a loro in modo da permettergli di agganciarsi a qualcosa nella stiva, ma fortunatamente non abbiamo dovuto farlo.
Parlami dell’atterraggio, che fu il primo al Kennedy Space Center (KSC).
L’atterraggio andò magnificamente. Naturalmente avevo già esperienza di atterraggi con lo Shuttle avendone effettuato uno a Edwards e quindi sapevo ciò che mi aspettava. L’unica cosa molto diversa in questo atterraggio fu il terreno sul quale saremmo andati a posare il veicolo. Un’altra differenza è che a Edwards il meteo è molto prevedibile. Se sta arrivando un fronte freddo di solito lo sai con due o tre giorni di anticipo. Al KSC invece il meteo è molto più instabile. Il tempo può cambiare nel giro di trenta minuti. Per cui eravamo ben consapevoli di poter trovare brutto tempo e di fatto ci fu della nebbia la notte precedente. Quando atterrammo incontrammo in effetti della nebbia e pure uno stormo di uccelli in quanto rispetto a Edwards c’è anche molta più attività faunistica.
In questa missione volasti con Ronald McNair che successivamente perderà la vita nell’incidente del Challenger. Parlami di lui.
Ron era un uomo molto talentuoso e a quel tempo credo fosse la seconda persona di colore a volare nello spazio. Aveva conseguito un dottorato di ricerca al MIT (Massachusetts Institute of Technology) di Boston, credo in fisica. Era un musicista e suonava molto bene il sassofono. Era cintura nera in arti marziali ed era velocissimo. Ho sentito che poteva correre i 100 metri molto velocemente. Era una persona a 360 gradi ed è stato molto triste perderlo. Nella nostra missione si comportò benissimo.
STS-35
La tua ultima missione doveva essere comandata da Jon McBride. Parlami di questa sostituzione.
Non ricordo molto di questa sostituzione. Jon passò tre anni a Washington al quartier generale della NASA e forse questo ha influito sulla cosa. Credo che avesse deciso di passare alla vita civile. Io seppi alla fine del 1988 o all’inizio del 1989 di essere assegnato alla missione e ne fui molto felice.
Il lancio fu estremamente problematico, con molti rinvii. La missione era prevista per maggio ma partì in dicembre con la navetta che venne riportata una prima volta nell’OPF (Orbiter Payload Facility) e una seconda nel VAB (Vehicle Assembly Building). Una vera odissea. Come ti sei sentito durante tutti quei mesi di attesa?
Fu molto frustrante per l’equipaggio, per il personale di terra e per tutte le persone della NASA coinvolte nella missione. Ci fu un problema nella sezione propulsiva dell’orbiter, nella parte posteriore. Ci sono degli enormi condotti nei quali scorre l’idrogeno e alcuni di questi condotti sono coperti da svariati cm di materiale isolante. Durante il conto alla rovescia non vennero superati i test di tenuta di queste condutture. Dapprima si tentò di sigillare i punti in cui potevano con più probabilità verificarsi delle perdite ma non funzionò. Così, dopo svariati mesi, si decise di produrre una mappa che mostrasse tutti i punti che potevano provocare delle perdite e di esaminarli uno per uno. Fu un lavoro molto sistematico. Risultò che invece di una singola grande perdita c’erano svariate piccole fuoriuscite che sommate creavano la grossa dispersione che si osservava. Queste furono riparate e alla fine potemmo volare. Dopo questi lavori Columbia era probabilmente diventata la navetta meglio sigillata e a prova di perdita dell’intera flotta. E noi fummo felici di volarci.
Mi puoi parlare dei problemi che aveste con il telescopio?
Si, per la nostra missione Astro 1 nella stiva avevamo dei telescopi, uno nell’ultravioletto e uno nei raggi X. Questi stavano su una montatura che li faceva ruotare per puntare gli oggetti da osservare. La montatura poteva essere manovrata manualmente oppure automaticamente tramite i computer. Quando arrivammo in orbita scoprimmo che il metodo automatico non funzionava a dovere, mentre potevamo manovrarlo manualmente senza problemi. Entro 24 ore dal lancio, assieme al personale del JSC e quello del Marshall Space Center di Huntsville decidemmo di utilizzare una complessa procedura per compensare il problema dell’automatismo. Per ogni osservazione, mentre eravamo nella parte illuminata della Terra avremmo manovrato la navetta nella posizione indicataci dal JSC ed avremmo puntato il telescopio in maniera grossolana secondo le istruzioni del Marshall. Dopodichè toccava al mio equipaggio, con le sue conoscenze delle stelle, effettuare il puntamento fine ed allineare il telescopio all’oggetto specifico. All’inizio questa procedura ci sembrava un po’ lenta ma in realtà funzionò bene e perdemmo pochissimi dati rispetto a quanto pianificato.
In questa missione stabilisti il record della persona più anziana mai andata nello spazio fino a quel momento. Dopo l’atterraggio sapevi già che sarebbe stata la tua ultima missione oppure speravi di volare ancora?
Ho sempre amato volare, soprattutto se le cose andavano lisce. A volte, quando qualcosa non ha funzionato a dovere è stato meno piacevole ma in generale ho volato con gioia fino alla veneranda età di 59 anni e mi sentivo ancora pienamente capace di pilotare, sapevo bene come comandare una missione ed ero all’apice della mia carriera. Quindi non sentivo alcun bisogno di andarmene. Ma avevo quattro missioni alle spalle, c’erano molte persone in fila per poter volare ed io stavo diventando sempre più vecchio e quindi se volevo cambiare la mia carriera dovevo farlo in fretta. Ci pensai su per un po’ e decisi di non volare più.
Qual è il ricordo più profondo del tuo volo finale?
Le operazioni notturne, sebbene abbia apprezzato molto anche i miei compagni di missione. Ho amato tutti i membri di equipaggio con i quali ho volato, ma è stato particolarmente piacevole essere un team di sette persone perché questo ha richiesto un sacco di interazioni e la gestione di molte cose diverse. Tuttavia, da un punto di vista strettamente personale essendo io un pilota, le cose che mi hanno maggiormente entusiasmato sono state il lancio e l’atterraggio notturni. Il lancio è stato spettacolare con la luce dei motori che ha illuminato un pezzo di Florida. L’atterraggio è stato ancora più interessante in quanto maggiormente difficile. Mentre atterri non vedi l’erba, i cespugli e tutto ciò che si trova sulla superficie del deserto che ti aiuta a giudicare l’altezza e altre cose. Ti devi affidare esclusivamente alle luci, che aiutano a guidare la navetta giù per il corridoio di discesa fino all’atterraggio. Sapevo quindi che non potevo commettere il minimo errore, come sempre del resto ma in questo caso era tutto più difficile. Per questo motivo mi sono addestrato duramente per questo atterraggio ed è stato un bene perché ho subito un inaspettato vento di coda che ha reso il tutto ancora più difficoltoso. Ma queste erano proprio le cose che mi piacevano di più.
Intervista rilasciata all’autore nel novembre 2009.
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