Eccoci al quarto appuntamento del ciclo di interviste dedicate al programma Space Shuttle. Questa è inoltre la prima in cui è coinvolto un astronauta che ha volato anche in programmi spaziali precedenti a quello STS.
Owen Kay Garriott è nato il 22 novembre 1930 a Enid, in Oklahoma. Nel 1948 si è diplomato presso la locale scuola superiore e nel 1953 si è laureato in ingegneria elettrica all’Università dell’Oklahoma nella città di Norman. Nei successivi tre anni ha servito nella U.S Navy in qualità di ufficiale specializzato in elettronica. Nel 1957 e nel 1960 ha conseguito rispettivamente un master e un dottorato di ricerca (entrambi in ingegneria elettrica) alla Stanford University in California nella quale è rimasto fino al 1965 con il ruolo di assistente professore e professore associato nel dipartimento di ingegneria elettrica.
Nel 1965 è stato selezionato dalla NASA assieme ad altri cinque scienziati uno dei quali, Harrison Schmitt, ha camminato sulla Luna nel 1972. L’anno successivo è arrivata una missione anche per Garriott, che ha volato sul laboratorio spaziale Skylab per 60 giorni.
Dopo 10 anni di attesa è arrivata la sua seconda e ultima missione a bordo della navetta spaziale Columbia per il volo denominato STS-9 o Spacelab-1. Nel giugno 1986 ha lasciato la NASA ed ha intrapreso una nuova carriera come consulente per varie compagnie aerospaziali.
Uno dei suoi quattro figli (tre maschi e una femmina), Richard nato nel 1961, ha volato a bordo della Stazione Spaziale Internazionale (ISS) nel 2008 facendo di Owen il primo astronauta americano ad aver dato i natali ad un altro astronauta.
STS-9
Sei stato uno dei pochi astronauti a volare sia sul razzo Saturn (sebbene nella versione IB) con relativo modulo di comando Apollo che sullo Space Shuttle. Rispetto al veicolo che ti ha portato sullo Skylab, cosa ti ha impressionato favorevolmente e negativamente della navetta spaziale?
I lanci sono stati molto simili, le sensazioni sono state per lo più le stesse, ed anche la durata della salita fino al raggiungimento della velocità orbitale è stata di circa 9 minuti per entrambi i veicoli. Quindi se parliamo del lancio non ci sono state sostanzali differenze. Le differenze ci sono state al ritorno. Tornare a Terra con un modulo di comando richiede una discesa con paracadute e ammaraggio in acqua, il ché è completamente differente dal rientrare con un grosso aliante.
Questa missione fu estesa di un giorno. Quale fu l’esatta ragione?
La missione fu estesa in quanto utilizzammo con molta parsimonia le celle a combustibile e quindi ci fu sufficiente energia elettrica per rimanere un giorno in più in orbita. Avevamo più lavoro da fare di quanto ne permettesse una missione standard di 10 o 11 giorni. Se avessimo potuto saremmo rimasti in orbita anche per 4 o 5 settimane, senza che fossero mancate le cose da fare. Perciò cercammo di prolungare la missione il più possibile, la quale durò fino al massimo consentito dai controllori di volo con l’energia elettrica che avevamo a disposizione.
Nell’ultimo giorno della missione ci furono due grossi problemi. Uno con i computer poco prima dell’accensione di deorbita e l’altro con due APU (Auxiliary Power Unit) durante le fasi finali dell’atterraggio. Parlami di questo.
Sì. I computer dovettero essere resettati. Ci furono alcuni problemi che vennero riconosciuti e risolti dopo il nostro rientro, ma mentre eravamo in orbita non sapevamo esattamente quale fosse il problema e quindi ci siamo messi nelle mani del Comandante e del Pilota. In particolare quest’ultimo, Brewster Shaw, aveva l’incarico di risolvere la situazione e lo fece in maniera ammirabile.
Per quanto riguarda le APU non ci accorgemmo di avere un problema fino a che non uscimmo dal veicolo. Mentre lasciavamo la navetta notammo un po’ di fumo provenire dalla coda dello Shuttle, che si rivelò essere un principio d’incendio delle APU dietro la stiva di carico. In quel momento non potevamo sapere la gravità del problema, che invece portò a notevoli riparazioni e alla modifica del modo in cui vengono gestite le APU.
Durante la missione sapevi già che sarebbe stato il tuo ultimo volo oppure speravi in altre opportunità?
Tutti noi speravamo di volare ancora in un “sequel” della missione Spacelab-1, ma dopo l’incidente del Challenger era chiaro che avremmo dovuto aspettare molto tempo per questa missione. Fu quindi in quel momento che realizzai di non avere altre missioni davanti a me, in quanto non volevo aspettare tutto quel tempo.
Qual è il tuo ricordo più profondo di questa missione?
Innanzitutto il fatto di aver lavorato con due equipaggi. Fu la prima volta che in una missione si lavorava 24 ore su 24, e inoltre con un equipaggio internazionale a capo dei due turni. Ulf Merbold in uno e Byron Lichtenberg nell’altro, il mio. Fu particolarmente gradevole lavorare con questa composizione internazionale. E poi ci fu la scienza, moltissimi esperimenti in cinque o sei diverse discipline, il ché mi ha reso felicissimo in quanto ero molto interessato nell’essere uno scienziato generalista e nell’essere in grado di lavorare in molte discipline diverse. E quindi queste due cose rappresentano il mio ricordo più profondo di quella missione.
Intervista rilasciata all’autore nel novembre 2009.