Le ragazze di Mercury 13
L’appassionato di storia dell’astronautica che si sofferma sul periodo pionieristico dei primi anni sessanta non può fare a meno di notare una stridente differenza fra i programmi americano e sovietico: mentre l’URSS sceglieva di inviare una donna nello spazio già nel 1963 (Valentina Tereskova), la NASA restava per decenni legata ad un corpo astronauti di soli uomini, tanto che la prima americana nello spazio, Sally Ride, seguirà di ben 20 anni la collega sovietica.
È facile oggi per noi, dopo decenni di battaglie per l’uguaglianza tra i sessi nella società e nel mondo del lavoro, stigmatizzare quel comportamento americano, che sembra così sessista e sciovinista, specie se paragonato al progressismo sovietico. Eppure vale la pena di esaminare la situazione, per comprenderla meglio ed inquadrarla in modo obiettivo nel periodo storico in questione.
Cominciamo con una premessa: la missione di Tereskova fu probabilmente una mossa meramente propagandistica. Ad oggi sono solo 3 le donne russe/sovietiche che sono state nello spazio; esse offrono un curriculum tecnico abbastanza insignificante (a partire proprio da Tereskova, che era una operaia con un brevetto di paracadutista prima di ricevere l’addestramento), mentre presentano rimarchevoli rapporti di parentela con personaggi di spicco del mondo aerospaziale russo. Insomma, forse non risponde proprio a verità che oltrecortina si fosse così progressisti.
Ma cosa succedeva contemporaneamente negli Stati Uniti? È proprio vero che nessuna donna venne mai considerata per missioni spaziali sino agli anni ottanta? E quali furono (se ve ne furono!) le responsabilità di NASA in questa politica?
Anche qui, facciamo una premessa.
Quando prese il via il programma “manned” americano, fu subito chiaro che il problema principale non sarebbe stato quello di trovare i candidati (gli aspiranti erano decine di migliaia), bensì di selezionarli in modo efficace per conservare solo le migliori candidature, quelle che presentavano la famosa “right stuff”.
Ma cosa cercavano i selezionatori in pratica? Studi scientifici o tecnici? Un fisico straordinario? No, o meglio, non solo. La “stoffa giusta” era la predisposizione ad affrontare l’ignoto e l’imprevisto con freddezza, e questa è una caratteristica che non si può evidenziare a priori con un test, e forse neanche insegnare o acquisire: chi ce l’ha, lo dimostra con le proprie esperienze professionali.
Ecco allora che fu addirittura il presidente Eisenhower a stabilire l’indirizzo che gli astronauti dovessero essere dei piloti collaudatori militari, persone che per il solo fatto di essere ancora in vita dimostravano di avere la “stoffa giusta” (un dato agghiacciante: all’epoca, un aviatore di marina USA aveva una probabilità su quattro di morire durante la carriera, e la percentuale saliva per i collaudatori).
Visto che all’epoca l’accesso alla carriera militare di pilota era riservato agli uomini, semplicemente NASA non avrebbe potuto inserire nel programma delle donne, perchè nessuna possedeva il pre-requisito del brevetto militare e dell’esperienza di test-pilot sui jet. Punto. Se ciò rappresenti una comoda scusa per NASA, a distanza di 50 anni, è una considerazione che lasciamo al lettore.
Ciò premesso, è proprio vero che nessuna donna americana fu mai considerata come astronauta sino ai tempi dello shuttle? Forse no.
Facciamo conoscenza con William Randolph Lovelace II, medico americano laureato ad Harvard ed appassionato di aviazione, tanto da divenire “flight surgeon” ed occuparsi della nascente branca della medicina aerospaziale. Durante la II guerra mondiale effettuò in prima persona alcuni lanci sperimentali col paracadute da più di 40mila piedi, rischiando la vita, e nel 1958 fu nominato presidente del Comitato Speciale di Consulenza NASA sulle Scienze Mediche. Con questa qualifica fu responsabile della definizione delle linee guida per la selezione dei candidati astronauti al programma Mercury.
Sin dal 1959, Lovelace, insieme al generale dell’USAF Donald Flickinger, cominciò a chiedersi se le donne avrebbero potuto superare i test fisici messi a punti per gli astronauti. Probabilmente in ciò ebbe peso l’amicizia di lunga data di Lovelace con Jacqueline Cochran, una pilota che deteneva numerosi record femminili di velocità. Inoltre era evidente a tutti che, a parità di ogni altra caratteristica, le donne, con una massa corporea minore e piu’ compatta, erano avvantaggiate nel prendere posto nelle anguste capsule spaziali dei primordi.
In ogni caso, Lovelace iniziò una propria attività di ricerca privata finalizzata ad identificare possibili astronauti donna. Ciò fu fatto in modo del tutto autonomo rispetto a NASA, e, sebbene forse il dottor Lovelace abbia qualche volta usato con eccessiva disinvoltura la propria affiliazione con NASA per promuovere le sue attività, il suo programma non ebbe mai alcun riconoscimento ufficiale.
Tra le prime ad aderire all’iniziativa di Lovelace (denominata FLAT, First Lady Astronaut Trainees) vi fu Geraldyn (“Jerrie”) M. Cobb, una pilota che aveva cominciato giovanissima spargendo fertilizzante sui campi e disperdendo volantini pubblicitari, sino ad arrivare ad occuparsi della consegna a reparto di caccia e bombardieri di nuova produzione.
Nel 1959, a 28 anni, ella era dirigente in una industria aeronautica, aveva migliaia di ore di volo di esperienza (sebbene nulla di paragonabile al volo di combattimento o di test dei “colleghi” uomini) e deteneva alcuni record mondiali.
Nella foto NASA la vediamo mentre si esercita con il diabolico simulatore di assetto MASTIF.
Cobb fu la prima a superare la prima fase di tests di Lovelace (comprendente esami medici particolarmente invasivi e dolorosi, quasi dei supplizi); successivamente, insieme a Lovelace, prese in esame più di settecento curricula di piloti donna, selezionando 19 candidate che vennero testate a spese di Jacqueline Cochran. In tutto furono 13 le donne a superare la prima batteria di tests (gli stessi del programma Mercury):
Myrtle Cagle
Jerrie Cobb
Janet Dietrich
Marion Dietrich
Wally Funk
Sarah Gorelick
Janey Hart
Jean Hixson
Rhea Hurrle
Gene Nora Stumbough
Irene Leverton
Jerri Sloan
Bernice Steadman
Dal 1995 esse sono note collettivamente con l’appellativo di Mercury 13, coniato dal produttore hollywoodiano James Cross. La più giovane aveva 23 anni; 41 la più anziana (madre di 8 figli). Tutte avevano accumulato almeno 1000 ore di volo, e, mediamente, la loro esperienza ai comandi era quantitativamente superiore a quella dei 7 astronauti del programma Mercury, sebbene non dello stesso livello qualitativo. Alla luce di quanto accadde in seguito, è toccante riportare come alcune di loro, per inseguire il sogno dell’astronautica, abbiano anche lasciato il lavoro.
Alcune FLATs proseguirono, sempre in via “privata”, con la fase II del programma di test, che comprendeva valutazioni psicologiche ed esperimenti in vasche di deprivazione sensoriale. Cobb superò, unica del gruppo, anche la fase III (condotta usando attrezzature militari). A tutto ciò i media dell’epoca diedero ampio risalto, tanto che Lovelace fu in grado di annunciare i risultati delle sue ricerche in una conferenza che si tenne a Stoccolma.
A questo punto, alcune delle donne di Mercury 13, tra cui ovviamente Cobb, furono invitate da Lovelace a presentarsi a Pensacola (Florida), presso la Scuola Navale di Medicina Aeronautica, per ulteriori esami. La Marina però, in assenza di una richiesta ufficiale da parte di NASA, rifiutò alle candidate l’accesso alle proprie strutture.
Immediatamente, Jerrie Cobb volò a Washington, per cercare sostegno nella prosecuzione dei test. Insieme a Jane Hart (vedi sopra) scrisse al presidente Kennedy e fece visita al vicepresidente Johnson. Pare anche che la segretaria di LB Johnson abbia preparato una bozza di lettera da inviare al direttore della NASA, James Webb, in cui si chiedeva conto delle politiche di selezione dell’Agenzia, ma il vicepresidente avrebbe poi stroncato l’iniziativa, annotando a penna sulla lettera “Finiamola qui!”
Dopo molte insistenze, nel luglio del 1962 il parlamentare Victor Anfuso riuscì ad organizzare una audizione pubblica dinnanzi al subcomitato della Camera su Scienza ed Astronautica. È significativo rimarcare che queste audizioni si occuparono di discriminazione sessuale ben due anni prima che questa fosse definita illecita ai sensi della legge sui Diritti Civili. Cobb e Hart testimoniarono riguardo i benefici del programma privato di Lovelace, ma Jacqueline Cochran, a sorpresa, espresse il timore che un programma femminile di selezione astronauti avrebbe potuto danneggiare gli USA nella corsa allo spazio. Secondo alcuni, questo inatteso voltafaccia troverebbe spiegazione nell’invidia maturata da Cochran nei confronti delle altre aviatrici che la stavano ormai superando in popolarità. La sua testimonianza risultò decisiva.
Per NASA parlarono il rappresentante George Low e gli astronuti Glenn e Carpenter: essi rimarcarono che nessuna donna all’epoca possedeva i pre-requisiti del brevetto militare e della laurea in ingegneria, richiesti per essere astronauti NASA (John Glenn dovette però riconoscere di non essere a sua volta in possesso del titolo di studio richiesto).
Al termine del’audizione, il subcomitato espresse la propria comprensione e simpatia per la posizione delle donne di Mercury 13, ma nessuna iniziativa fu presa.
Questo segnò, di fatto, la fine del programma di Lovelace e Cobb. Negli anni seguenti, entrambi provarono a più riprese a riaccendere nell’opinione pubblica e nelle istituzioni l’interesse per il programma spaziale femminile, sfruttando anche il clamore dell’impresa di Tereskova, ma senza successo.
Le prime candidate astronauta donne americane risalgono alla classe del 1978, mentre si dovette attendere il 1995 per vedere una donna, Eileen Collins ai comandi di uno shuttle.
Oggi le donne di Mercury 13 sono universalmente riconosciute per il loro ruolo pionieristico nell’avventura spaziale americana, e la loro battaglia per l’uguaglianza tra i sessi rimane d’esempio nonostante non abbia, all’epoca, portato frutto.
Jerrie Cobb dimostrò di essere fisicamente pari ai migliori rappresentanti delle forze armate degli Stati Uniti; dovette però arrendersi di fronte ad un mondo che da un lato chiedeva esperienze qualificanti, e dall’altro negava alle donne la possibilità stessa di acquisirle.
In apertura, alcune donne di Mercury 13 durante una visita al KSC nel 1995, ospiti di Eileen Collins.
fonte: NASA
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E’ un aspetto molto interessante e poco conosciuto di come veniva affrontata la corsa allo spazio (e non solo…) in quel periodo.
Mi permetto di consigliare a chi volesse approfondire l’argomento, il bellissimo libro di Martha Ackmann :
Mercury 13. La vera storia di tredici donne e del sogno di volare nello spazio
Disponibile in versione cartacea e Kindle.
Ecco, battuta sul tempo, grazie Stefano 🙂
Personalmente ci tengo molto perché l’ho portato io in Italia, avendone fatto sia lo scouting sia la traduzione… felice di vedere che è apprezzato, 🙂